La Nuova Sardegna

Il ricordo di Sergio Atzeni: un ponte tra Sardegna e resto del mondo

di Alessandro Marongiu
Il ricordo di Sergio Atzeni: un ponte tra Sardegna e resto del mondo

A 25 anni dalla scomparsa dello scrittore il giudizio dei critici: «Punto di rottura nel raccontare l’isola»

07 settembre 2020
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Alghero, poche settimane fa. Un turista entra in una libreria e chiede, in un italiano che tradisce subito la provenienza estera, il nome di un autore sardo da leggere assolutamente. Il libraio e un cliente, sardi entrambi, rispondono all’unisono, come si fossero accordati con il pensiero: «Sergio Atzeni». È un episodio piccolo, quasi minimo, ma estremamente rivelatore della percezione generale che nell’isola si ha dello scrittore, di cui quest’anno ricorrono i venticinque anni dalla scomparsa, avvenuta il 6 di settembre nelle acque di Carloforte. Deledda a parte, Atzeni è infatti sentito come, per così dire, il miglior biglietto da visita letterario per la Sardegna, la figura sul cui valore si è – e questo pare davvero un miracolo – tutti d’accordo.

E non solo: a spiegare la replica istantanea del libraio e del cliente c’è anche l’idea, il sentimento, che l’opera di Azteni, prima e meglio di altre, abbia saputo edificare e tuttora edifichi un ponte tra la Sardegna e il resto del mondo. Scrive uno dei suoi studiosi più attenti e di più vecchia data, Gigliola Sulis: «Le sue storie raccontano l’Italia, il Mediterraneo, l’Europa, scegliendo come punto d’osservazione la Sardegna, e all’interno dell’isola si insediano nella realtà urbana, fino ad allora poco rappresentata in letteratura, e dentro il perimetro urbano si collocano nei margini geografici e sociali, nei luoghi di incontro e di innesto».

Pluricitato l’articolo “Nazione o narrazione”, cui Atzeni affida sia una propria ideale carta d’identità, sia una dichiarazione d’intenti e di poetica: «Sono sardo, ritrovo in me i tratti storici e fisionomici dell’etnia, mi riconosco nel suo patrimonio culturale, sento che il mio modo di essere più antico, profondo, ineliminabile, è intrecciato alla vita passata dei sardi. Sono anche italiano; per rivolgermi al mondo uso questa lingua che mi coinvolge in una tradizione secolare (per usarla al meglio forse non sarebbe male conoscerne le radici, leggere e studiare cioè Boccaccio e Dante, Ariosto e Machiavelli, Manzoni e Sciascia). Sono italiano anche perché negli ultimi duecento anni molte abitudini e modi di vita italiani hanno attecchito nell’isola, prima in città, fra i colonizzatori e i domestici isolani, poi dappertutto. Sono anche europeo, cioè condivido con francesi, catalani, svevi, bavaresi, corsi, irlandesi, napoletani, siciliani, piemontesi, senesi, fiorentini e tante altre nazioni una tradizione culturale o fortissima, egemonica, la tradizione dell’uomo bianco, strutturata nei capisaldi sul messaggio biblico (giudeo e cristiano) che per la sua apertura all’esterno, per la sapienza dei suoi esegeti e santi, è stato capace di filtrare e rifiutare tutte le antiche sapienze africane, mesopotamiche, greche, trasformandole e assimilandone nel corso di una storia lunga e tortuosa, ben più complessa e avvincente di un romanzo».

Alle considerazioni della Sulis si allacciano quelle di Giancarlo Porcu, editor de Il Maestrale e anche lui profondo conoscitore e studioso di Atzeni: «Ritengo che abbia costituito il tramite tra la vecchia e la nuova narrativa sarda. Ha rappresentato un punto di rottura, ha indicato un modo nuovo di raccontare la Sardegna, soprattutto sotto il profilo linguistico e della struttura narrativa, ma senza per questo fare tabula rasa della produzione precedente. Di sicuro, ha coperto altre zone narrabili dell’isola, tanto in senso storico che geografico. In “Apologo del giudice bandito” fa un affondo nella Sardegna spagnola, e con il suo testamento “Passavamo sulla terra leggeri” compie un ulteriore passo indietro, nella preistoria (per quanto si tratti di una preistoria inventata) dell’isola».

Così Sebastiano Congiu di Ilisso: «Per noi era importante che Atzeni rientrasse nella nostra collana Bibliotheca Sarda, cui abbiamo dato vita perché costituisse un corpus della migliore letteratura isolana. Credo che ad Atzeni sia anche da riconoscere il merito, essendo riuscito ad attirare sulla Sardegna l’attenzione di grandi editori del resto d’Italia, di aver fatto da apripista ai tanti autori sardi che sono venuti dopo di lui». Trascorsi cinque lustri dalla sua tragica scomparsa, Atzeni può ancora parlare ai giovani? «Sì, per una doppia via. Per il giovane che vuole capire senza passare per studi specialistici chi siamo noi sardi, cosa ci caratterizza, “Passavamo sulla terra leggeri” può essere una lettura del massimo interesse. E poi ci sono le vicende pubbliche e autobiografiche de “Il quinto passo è l’addio”: i grandi cambiamenti della società, che Atzeni visse in modo anche traumatico, e il doloroso allontanamento dalla propria città sono ad esempio due generi di esperienze che possono accomunare i giovani di quarant’anni fa a quelli del Terzo millennio».

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