La Nuova Sardegna

«Il linguaggio come arma di resistenza»

di Silvia Lutzoni
«Il linguaggio come arma di resistenza»

La scrittrice palestinese, ospite di Qufestival, parla della sua scrittura e della situazione nei territori occupati da Israele

21 settembre 2020
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«Nient’altro che connettere la prosa con la passione, allora entrambe ne saranno esaltate e l’amore umano apparirà al suo culmine». Così scriveva E.M. Forster nel celeberrimo «Casa Howard» (1910), dove già a partire dall’epigrafe – «Only connect!» – manifestava la necessità di concentrarsi sui rapporti interpersonali per dare un senso a una vita esteriore fatta di «telegrammi e rabbia». Uno slogan che sembra informare anche la scrittura di Adania Shibli, narratrice e saggista palestinese che oggi vive tra Gerusalemme e Berlino ed è nota al lettore italiano per il romanzo intitolato «Sensi» (2007), e per la raccolta di racconti «Pallidi segni di quiete» (2014), entrambi pubblicati dall’editore Argo. Shibli è stata insignita per ben due volte del prestigioso Premio per la narrativa della Qattan Foundation e insegna alla Birzeit University in Palestina dove è ricercatrice nel campo degli Studi culturali. L’abbiamo incontrata a Orani dove, insieme a Monica Ruocco, docente di Letteratura araba all’Istituto orientale di Napoli e traduttrice dei suoi libri, è stata ospite della seconda edizione di «Quando tutte le donne del mondo. Critica. Poesia. Scienza. Multicultura», il festival delle autrici diretto da Bastiana Madau, promosso dall’Impresa sociale Nuovi Scenari, sostenuto dalla Fondazione Sardegna e dal Comune di Orani, in collaborazione con il Museo Nivola e le associazioni oranesi Pro Loco e Scuola di Musica “Costantino Nivola”.

Lei è oggi ospite di una rassegna culturale dedicata interamente alle donne.

Sono sempre molto cauta quando devo situare me stessa o i miei scritti in contesti che non siano strettamente legati al linguaggio. Dico ciò perché sono piuttosto riluttante all’idea di essere identificata con qualcosa che non sia la mia lingua, sia esso il genere, la religione o il colore della mia pelle. Il testo e la lingua nella quale quel testo è scritto hanno per me preminenza assoluta, e quella lingua è plasmata dalle nostre esperienze, dalle relazioni, dal nostro vissuto, insomma. Quando scrivo non è la mia consapevolezza di me stessa a parlare: io sono piuttosto al servizio della lingua, come se non avessi autorità. Più che una scrittrice mi sento come qualcuno che mette insieme le parole che si sono formate collettivamente. E’ ciò che accade anche in “Tafsil thanawi”, il mio romanzo del 2017 la cui traduzione italiana sarà nelle librerie in primavera, la cui vicenda si dipana sullo sfondo della Nakba, vale a dire della «Catastrofe» che tra il 1948 e il 1949 portò all’espulsione di 700.000 palestinesi. E’ come se le parole per dire quei fatti fossero già state registrate, ma solo adesso avessero incrociato la mia strada, per essere espresse in quello specifico modo e in quello specifico momento. D’altro canto però è vero che se le mie parole sono qua lo sono anche io come persona, e non potrei mai partecipare a un evento o essere in un luogo che supportasse pratiche o ideologie oppressive. Sono dunque qui per una forma di solidarietà nei confronti di coloro i quali si trovano in una condizione di oppressione, siano esse donne, o comunità emarginate; e questo è un luogo dove mi sento mio agio, ma come persona, non come scrittrice. Inoltre l’oppressione per me resta un concetto omogeneo nel quale non voglio distinguere coloro i quali ne sono vittima: a me interessa connettere, non dividere all’interno di esse. Aggiungo inoltre che la Sardegna è per me un luogo speciale, per la sua storia e la sua cultura, certo, ma anche perché è la terra che ha dato i natali a Gramsci, e credo che sia in parte stata questa terra ad aver ispirato i suoi scritti».

La Palestina è sempre rintracciabile nei suoi scritti: spesso più in una forma latente che come presenza. Il suo approccio sembra ricordare quello di Ghassan Kanafani, interessantissimo scrittore scomparso troppo prematuramente, il quale sosteneva che la letteratura era lo spirito che dava forma alla sua politica.

«Condivido la posizione di Kanafani e sono anzi convinta di non aver mai scritto una riga sulla Palestina. La letteratura non può essere uno strumento, ma può essere determinata da certe esperienze, comprese quelle politiche: e ciò vale non soltanto rispetto a ciò che scrivo, ma a anche a come lo scrivo. Scrivo dall’interno, e la mia è un’esperienza linguistica plasmata dalla colonizzazione e dall’occupazione. La mia specificità è data dal fatto che la mia lingua è costantemente sotto attacco: l’arabo in Palestina terrorizza l’occupatore, è ritenuta una minaccia. La mia lingua, che è ciò di più intimo che ho, è il mio terreno di gioco, il luogo dove mi sento libera come una bambina, è al contempo ciò che mi espone al rischio quotidiano – e drammaticamente democratico in Palestina – di essere umiliata e marginalizzata».

Lei è tra i promotori del progetto «A Journey of Ideas Across: In Dialog with Edward Said» che si è concretizzato nel 2013 in un simposio a Berlino e nella pubblicazione di una ricca raccolta di saggi critici sull’opera del critico palestinese.

«Vorrei cominciare dicendo che l’opera di Said è stata fondamentale nella mia formazione, così come lo è stato per molti intellettuali arabi, non perché Said fosse palestinese, ma per il suo impegno civile, per la sua insistenza sulla necessità di dire la verità al potere. Molti intellettuali arabi – è sotto gli occhi di tutti – sono stati cooptati dai governi e non sono in grado di parlare al potere, figuriamoci di dire la verità: e questo è vergognoso. Said ha rappresentato per noi un modello: è stato forse il primo intellettuale palestinese ad avere il coraggio di porsi criticamente rispetto all’autorità; si pensi alla sua opposizione agli accordi di Oslo e alla sua visione profetica rispetto alle condizioni dei palestinesi in seguito a quegli accordi. Ricordo che già all’indomani della pubblicazione i suoi libri suscitarono un acceso dibattito fra gli intellettuali arabi, ma ricordo anche che fu proprio Yasser Arafat a bandirli a Gerusalemme: fu quello il momento in cui paradossalmente ebbero la massima diffusione. Ricordo che comprai a Ramallah diverse copie dei suoi libri e le portai clandestinamente a Gerusalemme ai miei amici».

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