La Nuova Sardegna

Marcello Fois: «Scrivere significa sempre prendere parte»

di Costantino Cossu
Marcello Fois: «Scrivere significa sempre prendere parte»

In edicola dal 2 ottobre il primo volume della collana Scrittori di Sardegna: “Nel tempo di mezzo” dell'autore nuorese

01 ottobre 2020
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“Nel tempo di mezzo” di Marcello Fois apre “Scrittori di Sardegna”, la nuova collana proposta ai lettori dalla Nuova. Il romanzo sarà in edicola da domani a 7.50 euro oltre il prezzo del quotidiano.

Fois è scrittore di forte impulso civile. E’ da questa vocazione, tutt'altro che estranea alla sua scrittura, che abbiamo voluto cominciare questo nostro colloquio.

“Nel tempo di mezzo” è il secondo volume di una trilogia che comincia con “Stirpe” e finisce con “La luce perfetta”, saga dei Chironi che comincia nel 1889 e arriva all’Italia degli anni Ottanta. Un arco lungo il quale scorrono le vite dei singoli ma anche la storia dell’isola nell’alveo di quella nazionale. E su quest’ultimo aspetto il tuo sguardo non è neutrale…
«Poter raccontare di un passato, prossimo o remoto che sia, in letteratura significa spesso fare il punto sul presente. Nella cultura ebraica il passato non è disposto alle nostre spalle, ma davanti a noi. E’ ciò che conosciamo, ciò che abbiamo già vissuto, quindi costituisce un materiale noto. Possiamo rivederlo. Il futuro invece, secondo quell’idea del mondo e dell’uomo, sta alle nostre spalle: è sconosciuto, misterioso, ignoto finché non diventa passato. Noi non andremmo verso il futuro, ma è il futuro che ci insegue e ci incalza. E’ una visione che ho sempre ritenuto affascinante e sotto molti aspetti logica. La letteratura è un sondaggio, un carotaggio profondissimo del nostro passato che determina un punto di vista sul nostro presente e, soprattutto uniforma il nostro futuro. Noi camminiamo verso quello che sarà solo a patto che ci voltiamo alle nostre spalle perché è lì che si trova. Allo stesso modo io credo, noi sardi viviamo la difficoltà di non sapere nulla del nostro passato».

Il folklore sostituisce la consapevolezza storica...
«Sì, abbiamo un’infarinatura folklorica, ma nessuna competenza di noi stessi. Questo genera una sorpresa costante, il futuro ci prende in castagna, non è un inseguitore innocuo, ma un brigante che ci attende dietro l’angolo per derubarci. L’attualità della Sardegna è quest’oblio lamentoso e smemorato. Eppure quello che stiamo vivendo era già scritto, davanti a noi c’è un passato che, a leggerlo correttamente, ci avrebbe impedito di incorrere in questa stagione di depressione antropologica. In questa fase di colonizzazione strisciante vissuta come impegno locale. I sostenitori dell’attuale compagine governativa della Regione per esempio, millantano, trionfalmente, un autogoverno dei sardi gestito da un partito locale, ma non è così. Anche gli americani misero a capo delle riserve indiane dei nativi, ma questo non fece di quei territori spazi autonomi. Anzi. Quando si parla della propria terra non è concesso uno sguardo neutrale, bisogna prendersi la responsabilità della propria storia ed essere abbastanza attrezzati da non cadere nelle maglie del consolatorio, o attraversare i territori “nostalgici” degli eruditi locali. Nei miei romanzi cerco di esprimere la passione che sento per la mia terra, la Sardegna, ma anche il fastidio per certi tic e certi luoghi comuni che l’attraversano. Troppo spesso questi tic e questi luoghi comuni sono i materiali principali attraverso i quali ancora la si racconta. E la si governa. Dove risiederebbe, per esempio, al momento, il nostro tanto sbandierato orgoglio?».

Nel “Tempo di mezzo” la figura centrale incarna un'assenza, quella del padre. E' un romanzo sulla paternità?
«E’ la storia di una conquista. Il racconto del momento esatto in cui l'intruso che all'inizio non può che apparire come un terzo incomodo nel legame perfetto tra una madre e suo figlio, deve guadagnarsi lo status di padre. È un resoconto della malinconia che consegue alla constatazione che la strada è lunga, che quei nove mesi di compenetrazione da cui siamo esclusi sono un vantaggio di secoli. È uno status che deve rispettare quella precedenza, non scontato, non gratuito, non garantito».

Essere padri significa essere chiamati a una responsabilità enorme. E al rischio di non farcela. Avviene lo stesso con la letteratura?
«Vincenzo Chironi, il personaggio principale del romanzo, sente di dover assolvere un compito soverchiante in questo senso ed è attraversato da un'ansia di prestazione. Quanto alla letteratura devo dire che il senso di responsabilità aumenta esponenzialmente con la notorietà: chi è molto ascoltato dovrebbe stare doppiamente attento a quello che dice. Nell'ultima parte di “Nel tempo di mezzo” si fa riferimento a due quadri: “La vocazione di San Matteo” e “L’Angelo che dette il Vangelo a San Matteo”, entrambi di Caravaggio, in cui le dita sono fondamentali. Nel primo Cristo indica col dito puntato l'Apostolo ed egli, a sua volta, si punta il dito al petto: è un richiamo alla propria responsabilità, perché vivere, essere padri, non è solo un atto biologico, ma anche un atto responsabile; il secondo in cui l'Angelo enumera la stirpe di Abramo tenendo il conto con le dita e Matteo trascrive perché anche la letteratura è responsabilità. Quindi un messaggio riguarda il personaggio che deve afferrare il testimone della sua esistenza; l'altro riguarda me che racconto».

Vincenzo non può essere figlio e non riesce ad essere padre. Fallisce, naufraga...
«Qualche volta i personaggi acquistano forza dalle loro sconfitte. Come noi tutti. Da un punto di vista strettamente letterario il fascino di Vincenzo consiste proprio nella sua incapacità di quantificare e qualificare la portata del suo karma. Non ha conosciuto suo padre e teme che i suoi figli non conoscano lui: un cruccio o una premonizione. Sta di fatto che il racconto stesso di questo fallimento è di per sé la sua consacrazione al rango di personaggio. Lui, Vincenzo intendo, non lo sa, ma avrà molte più cose di quante non pensi in comune con quel padre che non ha conosciuto, e non mi riferisco alla somiglianza fisica».

Marianna la nonna, Cecilia la moglie. Cosa accomuna e cosa divide i due personaggi femminili del romanzo?
«L'esperienza e la formazione le separa, ma qualcosa di più sotterraneo le accomuna: la pietas. Quel sentimento che interrompe qualunque livore dopo la morte. Cecilia è una donna reale, è la radice di quelle madri straordinarie che hanno laureato tutti loro figli nonostante le ristrettezze. Marianna è l'amore totale, cieco, dispotico, ancestrale. Sono due facce della stessa medaglia e quindi puoi guardarle solo una per volta».

Com’è per te scrivere di personaggi femminili?
«Non diverso che scrivere di qualunque personaggio. Il femminile e il maschile sono equamente distribuiti nei miei personaggi, a qualunque genere essi appartengano. E’ l’osservazione dell’esistenza che impone questa fluidità. Accettare l’idea che maschile e femminile siano parametri attraverso i quali misuriamo il mondo ci libera dalla necessità di definirli come sistemi chiusi: i miei personaggi vivono reattivamente rispetto alle esperienze che li attraversano. Ci sono maschi che reagiscono “al femminile”, anche in modo inconscio, e femmine che, allo stesso modo, lo fanno “al maschile”. I personaggi femminili e maschili nei miei romanzi sono equamente distribuiti fra i generi. Se non ci fosse questa capacità della scrittura di travalicare questi steccati non si capisce come ancora oggi potremo leggere “Madame Bovary” o “Le memorie di Adriano”, giusto per fare due esempi al volo. Nel mio caso particolare devo continuamente fronteggiare il luogo comune del “matriarcato barbaricino” che mi inviterebbe a descrivere donne che hanno rinunciato alla propria femminilità. Donne fatalmente dominanti. Non troppo belle, meglio se baffute. Ma la parola matriarcato è solo una svista linguistica se attribuita alla società barbaricina. Che è di fatto esclusivamente matricentrica e per forza di cose. Non a caso i femminicidi anche nel nostro territorio, apparentemente franco e governato da donne, sono nella media nazionale».

In molti tra i recensori di “Nel tempo di mezzo” hanno parlato di scrittura epica.
«Beh, è un magnifico complimento. Epico significa che fa riferimento a un patrimonio stratificato e certificato. Ci sono argomenti chiave alla base di ogni narrazione che la fanno solida e duratura. E’ l’epico che sposta il peso della scrittura dall’attualità alla permanenza, dall’intrattenimento alla letteratura. Ora, da scrittori, da intellettuali, per quanto mi riguarda anche da sardi, bisogna solo decidere da che parte si vuole stare».

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