La Nuova Sardegna

Le matite di un popolo barbaro, 30 anni fa la ricerca che svelò i grandi illustratori sardi del Novecento

Paolo Curreli
Il collage di Edina Altara intitolato "S'Isposa" (Man, Nuoro)
Il collage di Edina Altara intitolato "S'Isposa" (Man, Nuoro)

Lo storico volume di Giuliana Altea e Marco Magnani fu una pietra miliare nella riscoperta e valorizzazione degli artisti isolani

04 ottobre 2020
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Nel 1990 viene pubblicato il volume “Le matite di un popolo barbaro”. Una ricerca innovativa, scaturita nel libro della Silvana di Milano, una vera scoperta di tanti talenti dimenticati e uno spartiacque fondamentale per la storia delle arti visive in Sardegna.

Tre decenni rappresentano un notevole spazio di tempo se riferiti alle esperienze umane ma un periodo davvero breve se si pensa che soltanto 30 anni fa non esisteva nessuno studio completo e metodologicamente aggiornato sull’ondata di creatività che fertilizzò la Sardegna nei primi decenni del Novecento. Un movimento del tutto imprevedibile che fece entrare un’isola lontana da ogni epicentro creativo nella modernità. Gli autori Marco Magnani, storico, critico e docente d’arte e la giovane ricercatrice Giuliana Altea (sassaresi e firme delle pagine culturali della Nuova) accesero un faro sulla produzione e sulle vicende di una schiera di illustratori sardi scoprendo un’isola ricca di talenti rispettati con commissioni anche di alto livello. Qualità riconosciuta da Paola Pallottino, importante storica dell’illustrazione, nella prefazione che scrisse per il volume. Marco Magnani è prematuramente scomparso nel 2003, lasciando un vuoto nell’analisi del passato e nella comprensione del presente artistico sardo. Giuliana Altea è oggi una docente universitaria autrice di saggi e monografie di estetica, di arte e design, curatrice di mostre su autori di primissimo piano come Le Corbusier, Tony Cragg o Lawrence Weiner, oltre ad essere una delle più importanti esperte dell’opera di Costantino Nivola e presidente della Fondazione a lui intitolata.

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Professoressa Altea come cominciò l’avventura di ricerca che portò fino all’edizione del volume?
«Mi ero da poco specializzata con una tesi su Giuseppe Biasi, un artista che aveva esordito come illustratore, e indagando su di lui mi ero imbattuta nel piccolo universo degli illustratori sardi del primo Novecento. Una folla di immagini inaspettate, che coniugavano in modo accattivante soggetti regionalisti e linguaggi grafici up-to-date. Mi era parso che dietro ci fossero una storia interessante da raccontare e una situazione culturale abbastanza insolita da mettere in luce. Un bell’argomento di ricerca, insomma. Insieme a Marco Magnani, amico e mentore che pur non essendo stato mio professore mi aveva seguito nei miei esordi di storica dell’arte e col quale avevo già collaborato nella riscoperta di artisti sardi come Stanis Dessy e Nino Siglienti, abbiamo deciso di approfondire il tema, ci siamo messi a esplorare archivi e biblioteche in mezza Italia, e così è nato il libro. Il primo di una serie di studi ci hanno portato a ricostruire la situazione artistica sarda del secolo scorso».

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Com’era il panorama critico ed editoriale in Sardegna su questi temi?
«Un atteggiamento che si potrebbe definire schizofrenico: i protagonisti del 900 erano da un lato esaltati indiscriminatamente e al di fuori di qualsiasi tentativo di storicizzazione, quali cantori dell’“anima sarda”, dall’altro liquidati in blocco da parte delle nuove generazioni di artisti e critici, che in nome di un ideale modernista assimilato un po’ frettolosamente li condannavano come esponenti di un’arte figurativa. Nell’ottica di quei tempi obsoleta e provinciale. Un giudizio bizzarro, perché in realtà gli artisti degli anni Dieci e Venti avevano molti più legami col panorama nazionale e internazionale dei loro colleghi che operavano negli anni Ottanta e che erano rimasti tagliati fuori dagli sviluppi del sistema dell’arte. Io e Marco Magnani eravamo invece convinti che bisognasse sottolineare questi legami ed evidenziare la continuità tra una situazione periferica come quella sarda e il contesto storico e culturale internazionale. Per esempio, mostrare come l’ossessione identitaria dei sardi andasse ricondotta agli strascichi, ancora ben presenti a livello europeo, del National Romantic Movement, come l’affannosa ricerca di una “sardità figurativa” fosse un tipico fenomeno di “invenzione di una tradizione”, secondo la definizione di Eric Hobsbawm; come le dinamiche culturali in atto tra Sardegna e stato italiano riflettessero meccanismi di stampo sub-coloniale e la rappresentazione esotizzante della vita popolare sarda da parte degli artisti fosse un modo per ribaltare in positivo gli stereotipi razzisti applicati ai sardi dagli italiani. Il ricorso a categorie come il primitivismo, l’autoprimitivizzazione, l’orientalismo nel senso chiarito da Edward Said, ci furono molto utili nell’esaminare questa situazione. Così come, per quanto mi riguarda, lo furono gli studi femministi nell’analizzare le iconografie femminili ».

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Perché questi artisti si dedicarono alle arti applicate?
«Nel momento in cui si forma in Sardegna un movimento artistico autoctono, intorno agli anni Dieci del Novecento, nella regione non c’erano tradizioni artistiche consolidate, mancavano accademie o scuole d’arte; la prima, l’Istituto d’arte di Sassari, fu fondata solo nel 1935.

Quindi, da un lato l’unica tradizione locale cui rifarsi era quella dell’artigianato popolare, gli intagli in legno, i cestini, i tessuti, che cominciano a venire rielaborati dagli artisti in chiave moderna, Liberty prima e Déco poi. Dall’altro, Liberty e Déco arrivano nell’isola soprattutto attraverso le riviste e la cartellonistica pubblicitaria. Gli artisti per lo più non frequentano scuole, si formano sulle pagine delle riviste e sui manifesti; e prima di diventare pittori sono illustratori».

Sfogliando il volume si ripercorre la costruzione di una particolare visione della Sardegna, un legame che sembra non spezzarsi mai anche se molti artisti lavoravano e vivevano sulla Penisola.
«Il discorso identitario è inseparabile dal discorso politico: lo sforzo di costruire un’identità figurativa accompagna all’inizio il faticoso tentativo di fare entrare la Sardegna nella modernità e di integrarla nella compagine statale italiana; ed è uno sforzo che sopravvive anche durante gli anni del fascismo. Quando il regime riesce a cooptare gran parte della dirigenza del Partito Sardo d’Azione, dando luogo al fenomeno che gli storici chiamano del “sardo-fascismo”, anche gli artisti si adeguano: il regionalismo elegante, decorativo ed esotizzante del primo Novecento lascia il posto a rappresentazioni più realistiche, di tono più severo e solenne, in linea con il clima del fascismo, ma ugualmente intrise di spirito identitario».

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Avete ricostruito la produzione di 27 artisti. Cosa si sapeva di loro all’epoca?
«Di alcuni di loro si conoscevano giusto le opere tarde, spesso ripetitive e commerciali, e non gli inizi più vivaci e interessanti; di molti altri niente del tutto. Ma intendiamoci: nonostante questi artisti siano stati a partire dalla fine degli anni Ottanta abbondantemente studiati, in campo internazionale e spesso anche nazionale restano largamente sconosciuti.

Lo stesso Giuseppe Biasi, un pittore che continua a essere molto ricercato dai collezionisti, fuori della Sardegna è relativamente poco noto, sia presso il grande pubblico che in ambito accademico.

Non sorprende quindi che ogni tanto salti fuori qualcuno che afferma di aver “riscoperto” questi artisti, sui quali sono stati pubblicati libri e cataloghi documentati – si pensi solo all’incredibile lavoro fatto dall’editrice Ilisso - e si sono tenute fior di mostre. Mi viene in mente il clamore a suo tempo suscitato dalla “riscoperta” da parte di Vittorio Sgarbi di Brancaleone Cugusi, artista in realtà già studiato e pubblicato da me e Magnani diversi anni prima; ma non mancano esempi anche più recenti».

Quanto è stata importante la memoria familiare?
«Più che la memoria dei superstiti, a quel punto già quasi tutti scomparsi o molto anziani, è stato importante il recupero delle carte d’archivio. Ad esempio abbiamo potuto pubblicare praticamente tutto l’epistolario di Biasi e quasi per intero quello di Eugenio Tavolara. I documenti hanno permesso la ricostruzione della biografia e del catalogo degli artisti, che a loro volta sono stati la base per l’interpretazione storico-culturale».

Esistevano collezioni private o pubbliche e un mercato per queste opere?
«Collezioni private, sì, alcune anche di qualità, di solito messe insieme da collezionisti che per motivi identitari raccoglievano solo opere di artisti sardi. Collezioni pubbliche, poche. La più consistente era la collezione Biasi della Regione, un fondo che ancora oggi attende di essere musealizzato (e speriamo che ci si arrivi presto grazie agli sforzi del Comune di Sassari). Poi la collezione della Galleria Comunale di Cagliari, purtroppo di qualità disuguale se si eccettua il nucleo importante delle sculture di Francesco Ciusa; infine, opere sparse di proprietà di province e comuni, che erano state acquisite nel tempo in maniera piuttosto occasionale, dando luogo a piccole raccolte prive di organicità; per quanto riguarda gli enti pubblici di Nuoro, le opere di queste raccolte sono in seguito confluite nella collezione del MAN. Quanto al mercato, ha conosciuto un’impennata proprio negli anni Ottanta, alimentato dai collezionisti di cui dicevo prima, spesso in competizione fra loro per accaparrarsi i pezzi più ambiti. Inutile dire che gli studi e le mostre hanno contribuito a spingere il mercato. È comunque un mercato locale: questi artisti spuntano prezzi più alti in Sardegna che altrove, come del resto avviene sempre per gli artisti del posto: un Biasi costa più a Cagliari che a Milano, come un Morandi costa di più a Bologna che da altre parti».

Ha curato una interessante mostra al Museo Nivola sulla giovane arte sarda, come vede dal suo osservatorio il mondo dell’illustrazione?
«Non c’è dubbio che nella mostra Back-up, ancora visibile per pochi giorni al Museo Nivola, la presenza degli illustratori sia stata di particolare spicco e molto ben accolta anche dal pubblico. Abbiamo privilegiato artisti che tendono a muoversi con disinvoltura tra ambiti e formati diversi, passando dalla pagina alla tela alla parete. Non illustratori “puri”, dunque, ma figure intermedie, al confine tra differenti campi espressivi, un po’ come lo erano i loro predecessori di inizio Novecento che praticavano l’illustrazione accanto alla pittura, alla decorazione o alla ceramica. Dalla Sardegna peraltro vengono anche illustratori puri di altissimo livello, quindi sì, direi che la tradizione delle “matite” continua: quello che oggi è venuto a mancare, e credo sia una fortuna, è il “popolo barbaro”, vale a dire l’attaccamento a un’identità concepita in senso primitivista ed esotizzante. Questi illustratori sono consapevoli di muoversi in un mondo globalizzato e ci si trovano totalmente a loro agio».

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