La Nuova Sardegna

REPORTAGE - L’altro volto di Sassari: ville e palazzi abbandonati

Gabriella Grimaldi
REPORTAGE - L’altro volto di Sassari: ville e palazzi abbandonati

Un’infinita serie di buchi architettonici in pieno centro, edifici vuoti, palazzi grandi quanto un isolato cadenti, antiche ville in totale disfacimento: reperti che testimoniano di scelte discutibili

18 ottobre 2020
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Se Sassari avesse un volto sarebbe senza orbite e con il sorriso sdentato. È l'immagine che più si avvicina alla "condizione" architettonica in cui si trova la città da troppi anni a questa parte. La conta degli edifici abbandonati, delle attività commerciali chiuse, delle case disabitate è sorprendente. Perché a un primo esame, o attraversando di fretta il centro urbano, non si fa caso a quante finestre vuote si affaccino sulla pubblica via, ma se ci si sofferma e si alzano gli occhi si scopre che palazzi grandi come un isolato sono circondati da transenne per pericolo crollo nelle vie più centrali della città. E che strutture un tempo occupate da uffici pubblici (trasferiti altrove, sempre in periferia) sono ora in stato di decadimento. Per non parlare delle case private, palazzine spesso di pregio, e quasi sempre in centro storico o ottocentesco, lasciate al loro destino da proprietari, o dagli eredi di questi ultimi, che hanno deciso di andare a vivere in campagna. E le domande che i sassaresi si pongono quando passeggiano nella loro città e notano il senso di abbandono che la pervade hanno una parziale risposta nella politica urbanistica che si è srotolata dagli anni Sessanta in poi. Da quando, con la costruzione del quartiere satellite di Latte Dolce, il centro della città ha cominciato a svuotarsi e i piani urbanistici messi a punto dalle varie amministrazioni hanno in qualche modo incoraggiato la costruzione selvaggia (spesso abusiva) di villette indipendenti sparse nell'agro. Le famose campagnette. In anni più recenti le scelte politiche hanno spostato l'asse delle attività di servizi e commerciali, e ormai anche quelle dello svago, in quella che doveva essere e non è mai stata una "zona industriale": Predda Niedda. Anche qui, e ce ne occuperemo nella prossima puntata di questo reportage, sono presenti le evidenti tracce del declino urbanistico di Sassari e i sintomi che, tra incompiute, enormi strutture già abbandonate o mai utilizzate e mostruosità architettoniche, c'è da rimboccarsi le maniche per restituire al volto della città il suo antico splendore.

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Un’infinita serie di buchi architettonici in pieno centro, edifici vuoti, palazzi grandi quanto un isolato cadenti, antiche ville in totale disfacimento: reperti che testimoniano di scelte discutibili. Non è detto che attraversando Sassari di fretta per lavoro, per spese o per sbrigare commissioni si metta a fuoco immediatamente il suo skyline deturpato dalle assenze. Assenze di persone negli edifici i quali invece incombono eccome in tutta la loro desolazione. E non stiamo parlando di periferie degradate, o quartieri poveri. Ma delle vie di rappresentanza, delle piazze-salotto, dei viali in stile liberty che in passato hanno caratterizzato il cuore di una città tutto sommato elegante, quantomeno coerente sotto il profilo architettonico. Basta camminare con calma, oggi, nelle zone del centro: ad altezza d’uomo l’alternanza tra serrande abbassate a alzate è allarmante. Le attività commerciali che hanno chiuso i battenti definitivamente (si parla di oltre due anni) e non sono state sostituite arrivano, a occhio, al 50 per cento. In alcune vie del centro storico questa percentuale sale di molto e quelle che erano le vetrine adesso sono pareti appannate di sporcizia su cui spesso svolazzano vecchi cartelli di affittasi o vendesi sbiaditi dal tempo. Ma è alzando lo sguardo che si realizza come le case, i palazzi, soprattutto gli uffici abbiano le finestre sbarrate, i portoni ricoperti di polvere e ragnatele, gli androni pieni di cartacce e altri rifiuti trascinati dal vento nell’incuria generale.

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Questo insieme di strutture pubbliche dismesse, di ex attività commerciali, di uffici amministrativi trasferiti altrove, di abitazioni private dove non abita nessuno è senza dubbio il lato più contradditorio della città, quello che porta a chiedersi: ma perché non si è ancora deciso di restituire agli abitanti strutture, spesso rilevanti sotto il profilo architettonico, magari con destinazioni differenti, o comunque di fare in modo che palazzi grandi quanto un isolato non restino abbandonati a un inevitabile destino di degrado?

GIGANTI SVUOTATI
Facciamo qualche esempio. In via Zanfarino il blocco che va da via Torres a via Tempio è quasi interamente occupato da due grandi palazzi, uno porta ancora le insegne dell’Istituto di Previdenza Sociale ma è di proprietà privata. Nel 2014 fu candidato a diventare residenza per gli studenti universitari ma non se ne fece niente e continuò il suo lento percorso verso il degrado. Oggi entrambi sono recintati da transenne che probabilmente segnalano il pericolo di crolli. L’Inps d’altronde ha lasciato dietro di sé altri relitti: il più inquietante si staglia scuro e senza neanche i tramezzi per tutta la lunghezza di via Livorno, parallela di via Napoli, dunque sempre in una zona centrale. In stato di abbandono da diversi decenni è semicostruito su un’area verde vastissima che oggi appare come un enorme campo incolto. Il nuovo piano urbanistico comunale parla di una parco che per il momento è solo sulla carta. Nella realtà è un luogo inaccessibile e pericoloso. L’Inps oggi si trova nella sua sede di via Rockefeller, in una zona molto più periferica.

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In parte la risposta alla precedente domanda è questa: la storia urbanistica della città coincide con il progressivo svuotamento del centro sia per quanto riguarda gli uffici pubblici che le abitazioni private. I primi sono stati trasferiti al di fuori della cinta urbana, soprattutto negli anni recenti, in nome di una maggiore razionalità (e contro l’inquinamento del centro) che si è tradotta, in mancanza di un’efficiente rete di trasporti pubblici, nell’incremento dell’uso dei mezzi privati (quindi in un danno all’ambiente) e in innumerevoli disagi per gli utenti.

Un altro monumento al vuoto edilizio è il gigantesco palazzo dove si trovava il catasto, nel bel mezzo di via Roma. Nel 2016 gli uffici sono stati trasferiti nella sede unificata dell’Agenzia delle Entrate in piazzale Falcone, sulla 131, e l’edificio abbandonato di fronte al museo civico comincia a mostrare pesanti segni di cedimento.

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INCOMPIUTE
Stesso destino per l’ex Intendenza di Finanza, un elegante palazzo ottocentesco che domina piazza Azuni, pieno centro storico. Nell’immobile, di proprietà del Demanio, dovevano trovare posto alcuni uffici della Prefettura e dello stesso Demanio. Per quattro anni lo stabile è rimasto ingabbiato in un ponteggio. Risolto quel problema già nel 2016, il riutilizzo del fabbricato langue.

Per un breve periodo, invece, sembrava essere scampato all’abbandono l’edificio che ospitava nella parte bassa dei giardini pubblici la Questura, trasferita da diversi anni nella nuova sede nella parte alta di Monte Rosello. E si è trattato di un’occupazione “nobile” visto che lì, per alcuni anni, si sono stabiliti i giovani artisti della città che non avevano un luogo dove incontrarsi e creare. La Provincia proprietaria dell’immobile dopo una trattativa (si era resa disponibile e l’Ex Q è diventata sede di laboratori, esperimenti e mostre. Un periodo di fermento culturale troppo breve che si è concluso con l’evacuazione dello stabile e un processo in tribunale. Dopo anni sulla facciata colorata dagli artisti incombe il cemento grigio con cui sono stati murati gli ingressi.

CITTÀ SDRAIATA
Non hanno un decorso più felice lo sviluppo dell’edilizia privata e i relativi flussi degli abitanti. Lo spiega chiaramente l’architetto Sandro Roggio nel capitolo dal titolo “La forma della città” inserito nel volume “Sassari” curato da Antonietta Mazzette e Sara Spanu (Rubbettino Editore): in particolare Roggio definisce Sassari la città “sdraiata” per via della esorbitante espansione edilizia nell’agro circostante. «La propensione secessionista, avviata negli anni Sessanta con l’edificazione del quartiere popolare di Latte Dolce-Santa Maria di Pisa, è proseguita poi senza soluzione di continuità occupando in modo casuale l’agro cittadino... Tra i protagonisti dell’espansione gli autocostruttori di case anche abusive, verso i quali c’è stata l’indulgenza di chi avrebbe dovuto farsi carico del disagio abitativo. Una tendenza, addirittura incoraggiata nei successivi decenni, che ha causato la compromissione dell’uso dei suoli per l’agricoltura e anche la scissione della comunità dispersa nello sprawl».

L’incuria delle amministrazioni nei confronti del centro storico e l’enorme ritardo con il quale le scelte politiche hanno preso in esame la sua rivitalizzazione hanno invece provocato lo svuotamento dei vicoli e delle piazze più antiche dai loro abitanti. Basti pensare che un questa zona abitano circa 7mila persone quando la capacità edilizia sarebbe per 30mila. Il corso Vittorio Emanuele, per esempio, è susseguirsi di edifici vuoti, anche di pregio, spesso intere palazzine sulle quali campeggia da troppo tempo il cartello vendesi. Lo stesso discorso vale per vie un tempo vivacissime come Turritana, Lamarmora o via Università. Case vuote anche in piazza Azuni, in piazza Tola, in Largo Cavallotti mentre in altre zone centrali della città, complice la fuga delle famiglie abbienti dalle abitazioni eleganti dei primi del Novecento, si è acconsentito alla demolizione di raffinate ville in stile Liberty per fare spazio a più convenienti palazzi multipiano. Altri edifici di pregio rimasti in piedi nella zona di viale Dante o nel quartiere di Cappuccini risultano comunque abbandonati.

BELLEZZA SCIUPATA
Emblematico, infine, il caso di due strutture private che un tempo si trovavano fuori dalle mura e ora fanno parte del centro urbano: entrambe suscitano curiosità per la loro bellezza sciupata. Una è la casa (di proprietà privata) all’angolo tra via Coppino e Macao costruita ai primi del Novecento dal proprietario del pastificio Pesce che si trovava di fronte. Un portone di foggia orientaleggiante con le finestre altrettanto raffinate che sta letteralmente andando in rovina. L’altra è la cosiddetta villa Pusino. Sorge sotto il ponte Rosello: costruita come la si può vedere oggi nella seconda metà dell’Ottocento appartiene alla famiglia Pusino ed è affiancata da un bellissimo frutteto. Nel 2004 il Comune fu a un passo dall’acquistarla per realizzare un museo e rendere onore a una parte della città potenzialmente magnifica. Non se ne fece niente e quella che un tempo era lo sfarzoso biglietto da visita all’ingresso della città oggi è il simbolo del suo decadimento.

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