La Nuova Sardegna

Quel piccolo pezzo d’Africa che porta speranza e futuro nel cuore del Campidano

di Enrico Pau
Quel piccolo pezzo d’Africa che porta speranza e futuro nel cuore del Campidano

Arriva in libreria il nuovo romanzo della scrittrice: “Un tempo gentile” Una manciata di migranti sovvertono la vita di una comunità chiusa in se stessa

22 ottobre 2020
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Se penso a Milena Agus mi vengono in mente gli anditi della nostra scuola percorsi avanti e indietro in quindici anni di lavoro comune al Meucci di Cagliari. Due persone che camminano, anzi tre, perché insieme a noi c’è sempre stato anche Ettore Cannas, professore di tecnica, teologo e pure lui scrittore. Sono stati anni belli e pieni di discussioni appassionate e di molte risate che nascevano dalle fragilità di ognuno di noi, dalle nostre ipocondrie, dalla paura e dal fascino che procuravano in noi certi studenti che sarebbero piaciuti a Pasolini, dai sogni che dai cassetti uscivano e stranamente prendevano la forma di romanzi o di film.

Un periodo eccitante che oggi ricordiamo come si ricordano le cose della gioventù con nostalgia e insieme con la consapevolezza di non essere più quei giovani artisti cagliaritani, come li immaginava Salvatore Cambosu, sorpresi a guardare il mare struggendosi di passarlo. Siamo rimasti qui nella nostra città, attaccati alla roccia delle nostre certezze e del piacere che ci dà, da sempre, questo luogo che per Milena è stato un serbatoio di idee, di visioni, di personaggi, di androni di vecchi palazzi, di scale nobili e polverose, di pianoforti che risuonano (sempre nei romanzi di Milena c’è un musicista, musiche che si fanno eco di una scrittura che ha più di tutto il tono di una realtà colta nell’attimo in cui diventa favola).

Ho molto amato Mal di Pietre, tanto da averlo immaginato sullo schermo. Dentro quel romanzo vedevo le immagini di tante infanzie, come le nostre, segnate dai racconti della guerra, non averlo portato sullo schermo per tanti motivi (Milena si è molto battuta perché io dirigessi quel film) mi ha lasciato la malinconia che ha dato poi forma al mio ultimo film, l’accabadora. Il giorno della prima de L’Accabadora Milena, che non parla mai in pubblico, mi ha strappato il microfono e alla sua maniera ha raccontato la storia di come lei a Parigi ha detto davanti a una sgomenta Nicole Garcia, la famosa regista francese habituè del festival di Cannes, che preferiva lo sconosciuto Enrico Pau come regista del film. Ci sono voluti dieci anni perché Milena e la Garcia tornassero a parlarsi. Per ringraziare di tutto questo affetto mi toccherà prima o poi dirigere il remake di Mal di Pietre.

Milena è così, non ha mai tradito le persone che ama, vive di passioni profonde, come per la sua casa editrice a cui è rimasta fedele non rispondendo mai a seduzioni più commerciali, qualcosa che è lontano anni luce dalle attuali mode del mercato editoriale. Per Milena la scrittura è necessità e anche cura dell’anima. In questi anni ha continuato a dare forma al suo mondo, ai suoi esseri umani, sempre particolari, pieni di singolari fragilità che assomigliano tanto a quelle della loro autrice. Nella scrittura Milena ha trovato sempre un riparo dalle cose del mondo, come se inventarsi nuovi “mondi possibili” come li chiamava Cesare Segre, l’avesse in fondo preservata dalle cose cattive della realtà. Eppure in tanti romanzi il male si affaccia ma ha sempre il corpo e la voce di personaggi più immaginari che reali.

Nel suo ultimo romanzo Un tempo gentile (Edizioni Nottetempo, 16 euro) come a volere contraddire questa sua tendenza a tenersi lontana da temi troppo contemporanei si affaccia invece su uno dei nervi scoperti del nostro presente:quello delle migrazioni. Lo fa con uno stile che per una volta abbandona il tono della favola per entrare nei territori della parabola, dove la realtà appare in controluce ma con una forte impronta morale. Una parabola che conserva la solita leggerezza della sua scrittura frutto di quattordici revisioni.

Milena confessa di avere scritto questo romanzo con l’intento di rispondere a una domanda che l’ha tormentata per molto tempo: «Che cosa sono stata capace di fare per gli altri?». E’ una domanda a cui in un’epoca come questa nessun essere umano può sfuggire. La risposta di Milena si trova in una scrittura che nasce soprattutto da un profondo senso di colpa nei confronti dei migranti. E’ come se la scrittrice portasse sulle spalle il peso di una colpa che è collettiva, ma che lei per una questione di carattere vive come fatto individuale. La sua forse è una filosofia un po’ ingenua, sorgiva, ma sincera che nasconde anche il forte richiamo del sacro, una fede molto intima, personale. Non a caso il suo personaggio preferito nel romanzo è Padre Efix, un prete di strada, di quelli che si sporcano le mani nel fango della vita. Il tempo gentile del titolo è quello di un piccolo villaggio della Sardegna sconvolto e mutato per sempre dall’arrivo di un gruppo di stranieri, come li chiama Milena «gli invasori», ciò che il romanzo racconta è la trasformazione che avviene dentro questo piccolo mondo, dentro uno sparuto gruppo di donne, amiche, che lei definisce «vecchieggianti».

Quello che accade, per tornare alla fede, è una specie di miracolo, un cambiamento profondo, il superamento di tutti i confini emotivi della paura di ciò che non si conosce, dell’altro, del diverso. Più che una metafora del presente è il sogno di un futuro che nella gentilezza dovrebbe trovare una nuova forza propulsiva, quella gentilezza capace di cambiare il mondo, quella di cui parla anche Papa Francesco nella sua nuova enciclica. Non è un caso che la scrittrice all’io narrante, alla terza persona preferisca il noi, un noi che muta nel corso della narrazione, un noi che diventa più ricco nella scoperta degli altri. Dentro il romanzo ogni tanto, scritte da Lorena, il personaggio in cui Agus si specchia, si affacciano, tolte da vecchi cassetti, le poesie “brutte” della giovane Milena. All’obiezione che nel suo romanzo l’unica voce che si senta sia quella degli abitanti del villaggio, degli invasi, la scrittrice risponde che il suo desiderio era quello di mostrare la nascita di una comunità inedita, paradossalmente la parte più fragile, quella dei sardi del villaggio che nell’arrivo dell’altro hanno scoperto un’opportunità. La partenza dei migranti, che sognavano l’Europa e hanno invece trovato un villaggio remoto, alla fine lascia un vuoto profondo, una solitudine che sembra quella a cui la nostra società è condannata dal suo egoismo.

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