La Nuova Sardegna

Nel labirinto delle anime maledette

di Pier Luigi Rubattu
Nel labirinto delle anime maledette

Raccolte in volume le “storie dimenticate” scritte da Piero Mannironi sulla Nuova

03 novembre 2020
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Dopo le prime uscite delle “Storie dimenticate”, noi che stavamo in redazione a impaginarle e titolarle abbiamo capito che quei reportage da un passato spesso remoto stavano diventando un appuntamento imperdibile per i lettori della Nuova Sardegna. Che ci scrivevano: chi pregava di fare i complimenti a Piero Mannironi, chi si era perso una puntata e chiedeva di recuperare la copia del giornale, chi voleva sapere se e quando i pezzi sarebbero stati raccolti tutti assieme in un volume.

Ed eccolo finalmente il libro di Piero Mannironi, si intitola “Anime maledette”, lo pubblica la casa editrice Il Maestrale. Dentro ci sono le storie pubblicate sulla Nuova Sardegna dal giugno al dicembre 2019: fatti di cronaca tra i più tenebrosi e affascinanti che Piero ha incontrato in 35 anni di lavoro per il nostro giornale. Rievocati e rivisitati – spiega – per «recuperare una memoria collettiva che si sta fatalmente perdendo»

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– Come è nata, un anno e mezzo fa, l’idea delle storie dimenticate?
«In un caffè di Piazza d’Italia, a Sassari, in una mattina piena di sole. Con il direttore della Nuova Sardegna, Antonio Di Rosa, si parlava di informazione e di giornali, della rivoluzione tecnologica nell’editoria e della crisi della carta stampata. E per questo anche della necessità di esplorare nuovi linguaggi nel racconto della vita quotidiana e trovare nuovi spunti. Ho ricordato così storie di uomini e donne restate incomplete, o meglio incompiute, per la veloce dinamica del giornalismo quotidiano. Storie perciò condannate a svanire, portandosi dietro il loro pesante fardello di dolore e di speranza, di volti e di parole, di sofferenza e di rinascita. Soprattutto storie fuori dai luoghi comuni sulla Sardegna. Antonio Di Rosa allora mi ha interrotto dicendo semplicemente: “Bene, allora queste storie scrivile per noi”».

– Ma con quali criteri hai scelto tra i mille fatti di cronaca che potevi estrarre dal tuo archivio giornalistico e dalla tua memoria?
«Alcune vicende secondo me non meritavano di essere dimenticate, perché rimaste orfane di una risposta di giustizia e quindi senza una consolazione possibile. Altre perché, dopo tanto tempo, ora che la polvere delle emozioni si è posata, meritano di essere riviste con più serenità, fuori dalla prigione immateriale dei fondamentalismi e non deformate dagli occhiali ideologici. Altre semplicemente perché è giusto ricordarle. Perché, come scriveva Cesare Pavese: “Le cose si scoprono attraverso i ricordi che se ne hanno. Ricordare una cosa significa vederla – ora soltanto – per la prima volta”».

– I lettori che ti avevano seguito da cronista e, per vent’anni, da inviato della Nuova Sardegna ti hanno ritrovato in una dimensione nuova. Quanto diversa? C’è stato un cambiamento nella tua scrittura?
«È stata un’esperienza che si è evoluta fuori dagli schemi classici del giornalismo che impongono una netta terzietà rispetto agli eventi e una scrittura semplice e diretta. Non nascondere emozioni e passioni, mentre ci si avventurava in queste storie dimenticate, è stata una scoperta e allo stesso tempo una liberazione».

– E così la cronaca è diventata storia.
«Anzi, storie. Dalla bella e triste Gisella Orrù, uccisa e buttata in un pozzo vicino a Carbonia, all’inattesa e sorprendente umanità del bandito orgolese che scriveva poesie e riflessioni sul proprio destino e sulle proprie angosce, ormai rassegnato a incontrare la morte. Ma anche omicidi misteriosi, come quello del potente latifondista di Aritzo Vincenzo Arangino, ex federale fascista e poi influente esponente democristiano, o quello terribile dei due fratellini Laura e Paolo Fumu a Sa Serra, un mondo disperso tra le colline della Gallura e della Barbagia. E ancora: la delirante parabola criminale di André Spada, il sardo che diventò l’ultimo bandito d’onore e di vendetta della Corsica e la cui vita finì tragicamente in una piazza di Bastia. Sulla ghigliottina. Oppure la scelta di Luciano Gregoriani che, con le sue alluvionali confessioni sull’universo nascosto dei sequestri di persona, segnò l’inizio della fine di una criminalità che aveva trasformato in una spaventosa industria la secolare e cupa tradizione del “furto degli uomini”. Determinando così, senza saperlo, la rottura storica del codice sociale dell’omertà e il tramonto ineluttabile di un banditismo feroce e avido. Il mio libro è un viaggio in una Sardegna oscura e violenta e in una Corsica sconosciuta e labirintica: 27 capitoli nei quali il tentativo è stato quello di andare oltre i confini canonici della cronaca».

– Memoria e oblio: un conflitto lacerante oggi, con il web e i motori di ricerca che hanno il potere di non dimenticare nulla, proprio nulla.
«Nella ricostruzione dei fatti e nella definizione dei protagonisti c’è anche una ricerca di risposte a verità sfuggenti e soprattutto un desiderio di capire vicende altrimenti condannate a perdersi tra le pieghe nascoste del tempo. Alcune storie sono state quasi un pellegrinaggio professionale ed esistenziale, alla scoperta di quanto purtroppo lasciato incompiuto, rincorrendo i tempi frenetici della cronaca. Come la vita e la morte del maresciallo Dettori, che vide tutto nella tragica notte di Ustica, o il massacro di Francis Turatello, “Faccia d’angelo”, nel carcere nuorese di Badu ‘e carros. Non è stato solo il racconto di storie di uomini e donne, carnefici e vittime, ma anche una ricerca e una riflessione».

– In alcune storie torna, potente, lo stile del giornalismo d’inchiesta.
«Sì, “Anime maledette” è anche una rilettura di alcuni misteri della Sardegna ancora oggi irrisolti: l’abbattimento dell’elicottero della guardia di finanza, nome in codice “Volpe 132”, nei cieli del Sarrabus, il naufragio incomprensibile di un cargo sovietico nella Sardegna sud orientale negli anni della guerra fredda e i sogni rivoluzionari di Feltrinelli, che voleva trasformare la Sardegna nella Cuba del Mediterraneo, con l’aiuto dell’imprendibile re del Supramonte Graziano Mesina».

– Il tuo personalissimo epilogo.
«Solo alla fine è stato possibile capire che il filo conduttore di questo viaggio è stato il male in tutte le sue declinazioni, nelle sue buie suggestioni e nelle sue imprevedibili incarnazioni».

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