La Nuova Sardegna

Francesco Ciusa, la cultura dell’isola come mito ancestrale

GIULIANA ALTEA
Francesco Ciusa, la cultura dell’isola come mito ancestrale

L’artista barbaricino protagonista del primo volume della collana  proposta ai lettori dalla Nuova Sardegna, in edicola da venerdì 29 

26 gennaio 2021
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Pubblichiamo un estratto della prefazione di Giuliana Altea alla monografia su Francesco Ciusa che venerdì 29 gennaio aprirà la seconda serie della collana “I maestri dell’arte sarda”.

* * *di GIULIANA ALTEA

La scultura di Francesco Ciusa “La madre dell’ucciso” una volta vista è davvero difficile dimenticare. L’immagine della vecchia contadina che, accovacciata a terra, compie il rito nuorese de sa ria (la veglia funebre) è una presenza che s’impone allo sguardo con una forza straordinaria. La suggestione che esercita proviene dal contrasto tra la posa, rigida e bloccata, e il naturalismo della resa: l’osservazione minuziosa dei dettagli, il reticolo di rughe che scava profondamente il viso, la descrizione attenta del panneggio dell’abito. Ciusa in effetti semplifica fino all’osso forme che appaiono ancora classiche e rinascimentali, eredità dei suoi studi fiorentini: il modo in cui riesce a conciliare la solidità del volume e il ritmo delle linee create dalle pieghe del vestito e della benda, dalle vene e dai tendini delle mani provate dal lavoro, deriva per esempio da Donatello; e un ricordo donatellesco (la “Giuditta”) è anche l’ombra del copricapo che aggiunge solennità al volto.

MONDO POPOLARE. Modellata tra il 1906 e il 1907 (più di un anno dopo il rientro di Ciusa nella città natale, avvenuto nel 1905), la statua viene accolta con qualche esitazione dagli amici nuoresi: Sebastiano Satta e Antonio Ballero gli sconsigliano di mandarla alla Biennale d’arte di Venezia, dove, sostengono, data la preferenza per il nudo che impera nella scultura italiana, non sarebbe capita. Col suo richiamo al mondo popolare sardo “La madre” rispecchia in ogni caso un retroterra di idee da loro condiviso. Nella cultura tradizionale isolana, la posa rigida, immobile, della veglia funebre serviva a contenere la sofferenza della perdita, a far sì che questa potesse essere superata attraverso l’esperienza del lutto, di un cordoglio che da dolore insostenibile diventava cerimoniale, rito comunitario (il lamento rituale delle prefiche davanti al cadavere è qualcosa di diverso dall’angosciosa esplosione di un pianto spontaneo e non controllato). Ciusa trova l’equivalente di tutto ciò in campo artistico con l’adozione di forme solenni, statiche, e di composizioni geometrizzanti e simmetriche, trasporta nella dimensione del mito e del simbolo la tragica realtà della vita sarda. Evita così di cadere nel patetico proprio di molta “arte sociale” a cavallo del secolo: asciutta e composta, la vecchia contadina chiusa nel suo dolore è profondamente dignitosa. (...)

OFFERTA AMERICANA. Contrariamente ai timori degli amici nuoresi, “La madre” a Venezia fu molto apprezzata. «Ti ci vorranno dieci anni per digerire questo successo», pare avesse detto Plinio Nomellini allo scultore al momento della sua affermazione veneziana. A Ciusa però non bastarono dieci anni: per tutta la vita si sarebbe portato dietro, come il rimprovero di una promessa non mantenuta, l’ombra di quell’esordio così brillante. Invece di cogliere i frutti del successo (aveva ricevuto un’allettante offerta di lavoro negli Stati Uniti, e in ogni caso l’ambiente artistico italiano lo avrebbe accolto più che favorevolmente se avesse pensato di stabilirsi in uno dei centri della Penisola), decise di ritornare in Sardegna, dove lo richiamavano, oltre a pressanti sollecitazioni della famiglia, le aspettative riposte in lui da tutto l’ambiente intellettuale isolano, per il quale voltare le spalle alla terra natale sarebbe equivalso a un tradimento. «Se sei debole parti, se sei forte ritorna», gli telegrafò Sebastiano Satta, mentre la Deledda si sarebbe espressa lapidariamente in sardo (lei che non aveva esitato a lasciare Nuoro per Roma): «Salude e gloria a fruttu e a fundu, su fruttu ch’in su semene in terra sua». La scelta di Ciusa doveva avere conseguenze negative sugli sviluppi futuri della sua ricerca: intanto perché lo privava di quei contatti sociali e di quelle opportunità di lavoro indispensabili, allora come oggi, alla carriera di un artista (da questo punto di vista nulla è cambiato rispetto al 1907); poi perché lo rinchiudeva in un ambiente in cui gli scambi culturali erano necessariamente limitati, togliendo alla sua arte l’alimento che le occorreva.

AMBIENTE SARDISTA. Se inizialmente lo scultore si era avvantaggiato dell’atmosfera culturale respirata a Firenze, e quindi del fervido ambiente “sardista” creatosi tra Nuoro e Sassari all’inizio del secolo, in seguito la mancanza di questi stimoli avrebbe penalizzato il suo lavoro. Ciusa, artista estremamente sensibile e pronto a captare gli spunti che gli giungevano dall’esterno ma poco incline alla riflessione teorica o alla speculazione intellettuale, aveva bisogno dell’humus culturale creato da un ambiente vivo e animato. Quanto si è detto non deve peraltro far credere che il rientro di Ciusa in Sardegna coincida con un declino della sua scultura. È vero il contrario: gli anni tra il 1908 – quando si stabilisce a Cagliari – e lo scoppio della guerra sono fitti di opere di alta qualità.

I CAINITI. Nelle intenzioni del suo autore, “La madre dell’ucciso” doveva essere la prima di un ciclo: “I cainiti”. Un “poema plastico” con il quale Ciusa si proponeva di illustrare il mondo “primitivo” della Barbagia. Nelle opere successive l’artista affronta quindi, dopo quello del lutto, altri aspetti della vita popolare, di cui scopre l’intima sacralità: il lavoro (“Il pane”, 1907; “La filatrice”, 1908-09), il viaggio e l’inquietudine esistenziale (“Il nomade”, 1908-09), la ribellione (“Dolorante anima sarda”, 1910-11), la vendetta (“Il cainita”, 1913-14). All’origine dei vari momenti del ciclo sono episodi, situazioni e immagini della quotidianità, che sono rimasti impressi nella memoria dell’artista per i loro caratteri di suggestione emotiva o drammatica, e che egli investe della luce del mito.

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