La Nuova Sardegna

Epistolario inedito tra Calamandrei e Salvatore Satta

di Angela Guiso
Epistolario inedito tra Calamandrei e Salvatore Satta

Esce domani per la casa editrice Il Mulino un libro che raccoglie la corrispondenza tra i due intellettuali

24 febbraio 2021
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Tanti si sono soffermati sul tema della «morte della patria» introdotto da Salvatore Satta nel suo romanzo “De profundis”, sugli argomenti contingenti che l’hanno indubbiamente ispirato, all’indomani dell’8 settembre 1943. In fondo Satta si riferiva a un preciso momento storico, dentro un preciso contesto geografico, ma nell’urgenza di un verdetto offuscato dall’ideologia si è voluta dimenticare l’ispirazione da cui la scrittura sattiana era mossa, la complessità dei riferimenti culturali che collocano questa breve ma importantissima opera, “De profundis”, in un clima fuori del tempo e chi, come Bodei, felicemente parla di «metafisica della storia» mostra di aver colto l’importanza di un tema che ha assillato Satta fino alla composizione, comprendendolo, del “Giorno del giudizio”.

In realtà il cambiamento delle cose è la condizione o la conseguenza della loro permanenza, la mutevolezza è la ragione della loro sopravvivenza. Nell’apparente movimento della storia, che giorno dopo giorno si dipana tra le vicende umane, si coglie l’immobilità delle leggi, così come l’apparenza consente di sperimentare la loro realtà profonda. Al di là dei giochi sontuosi dell’antitesi, del paradosso, dell’ossimoro, nei quali Satta si esercita fino al “Giorno del giudizio”, anche attraverso le prefazioni e gli articoli di opere giuridiche, e che sembrano renderla ambigua, la realtà rimanda a regole, a credo.

Forte di un’erudizione sterminata, l’opera sattiana è una raffinata sequela di voci colte. È un Satta poietico, che scava sotto i fatti e li nomina e traveste per trarne forza evocativa, mitologica e simbolica. Il chiarore archetipico di momenti della storia dell’umanità e la potenza metaforica sono esibiti con maestria. Talvolta la prosa alimenta una sequenza di visioni regalando un senso ulteriore. Un teatro verbale con un surplus immaginifico. Una macchina del senso che getta un ponte vertiginoso tra il realismo e il barocco. Ed è anche grazie a questa impalcatura stilistica che Satta riesce a fare del racconto del ventennio appena trascorso il fuso intorno al quale scorre la Storia, tradotta con feconda «perplessità interrogativa» avrebbe detto Carlo Calcaterra. Nell’«uomo tradizionale» il maestro vede riflessa l’intera vicenda del nostro Paese, in quell’«uomo tradizionale» che, da povero, teme il digiuno ma, per paradosso, anche l’anoressia dei ricchi ai quali guarda speranzoso, come dimostrano le pagine dedicate all’Inghilterra. Quegli uomini tradizionali che hanno sostituito l’etica con la bulimia di cibi anche solo allegorici, a discapito della libertà.

Il giudizio sulla Storia è comunque esercizio difficile: «Per la verità ancor oggi, se il pensiero ritorna a quel che è accaduto – e che è carità non ricordare – noi proviamo un fremito di ribellione che ci fa dimenticare e quasi accettare, le pene presenti; e peggio ancora, se il pensiero considera, a certi mostri che di nuovo si aggirano per le strade, l’impossibile possibilità di una seconda morte, ci sentiamo pronti ad esaltare il nostro peccato e precipitare nell’inferno per non uscirne mai più. Ma il giudizio davanti al tribunale di Dio, come davanti a quello della Storia, si svolge fuori del tempo, e non tiene conto del fremito e delle insofferenze di un individuo o di un popolo. Quel che Dio e la storia ricercano, nel loro finale giudizio, è invece la conformità degli eventi alla linea logica provvidenziale, quella misteriosa linea che indubbiamente esiste, ma che purtroppo non si riesce a distinguere fino a quando gli eventi non si sono compiuti».

Ancor prima di quello della «morte della patria», il “De Profundis” pone il tema della patria stessa, dibattuto in numerose sedi e tempi. È come se, alla pari del Petrarca del “De remediis utriusque fortunae”, il giurista nuorese avesse accarezzato un suo personale mito di Valchiusa e si fosse forgiato un’ideale patria d’elezione, custode di valori, soprattutto nei confronti dell’infernale Avignone/Babilonia, quell’Italia del ventennio, corrotta e decadente che riferiva una condizione di perdita irreparabile di virtù.

Ciò che si intravede in filigrana è per definizione un’altra Italia: per Enrico Fenzi «quella che forse è stata e quella che potrebbe, forse, essere», Dio permettendo, stante l’invocazione espressa alla fine del libro. Sicché Satta, come Petrarca, si sente un italiano in esilio proprio perché è, e si vuole, cittadino di un’Italia che non c’è, la stessa che, “mutatis mutandis”, a cominciare dall’ “Africa” e dal “De viris” e sino al “De gestis Cesaris”, l’intellettuale aretino ha cercato di rianimare in nome di una continuità di valori. In questo modo si spiega la veemente contrapposizione al presente degradato che fa di un esiliato l’esule non da una patria, ma dal tempo presente, quello in cui vive e impera «l’uomo tradizionale», sulla cui definizione Satta si è a lungo soffermato.

E non è un’ipotesi priva di fondamento affermare che Satta si fosse ritagliato, durante l’intera sua vita, un modello esistenziale che, tradotto in opera, non avrebbe che potuto chiamarsi De vita solitaria anche secondo l’originale declinazione del giurista, da par suo, ovvero, come nell’intervento al «Foro Amministrativo» del settembre 1969: «Non c’è dubbio che – scrive Satta – è nel vero chi rileva la mia solitudine. Ma non ha ragione quando parla di un bisogno individualistico di solitudine, cioè in pratica di negazione dell’altro. La solitudine del giurista è il prezzo che egli paga alla cieca volontà di vivere, la condanna che questa gli infligge. Chi afferma un valore, la vita, il diritto come valore, resta solo».

© 2020 Il Mulino, Bologna

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