“Black Out” Perchè ho ucciso mia moglie
di ROBERTO DELOGU
Uno stralcio dal libro di Roberto Delogu Senso di colpa e la capacità di dimenticare
5 MINUTI DI LETTURA
Pubblichiamo un estratto da “Black out”, il romanzo con cui ha ottenuto la ribalta nazionale Roberto Delogu pubblicato da Nutrimenti.* * *di ROBERTO DELOGU
In sintesi, ho ucciso mia moglie perché mi urtava i nervi il rumore che faceva quando schiacciava le bottiglie di plastica per compattarle. E sì che gliel’avevo detto parecchie volte. Le avevo anche spiegato che quel suono, così sgradevole e cupo, mi dava la sensazione di un osso lungo che d’improvviso si sgretola sotto il mio peso o quella dei denti che, in certi sogni ancora ricorrenti, si frantumano in bocca. E infatti, ogni volta, una scarica di brividi mi correva lungo la schiena inducendo lo sfintere a contrarsi assieme ai muscoli del collo e delle mani che si stringevano in pugni mentre la vista si annebbiava per qualche secondo. Lei, però, continuava a compattarle, forse per abitudine o per sbadataggine, ma ai tempi, in cui a onor del vero non ci stavo tanto con la testa, mi ero convinto che lo facesse apposta per farmi innervosire. Margherita, peraltro, era una persona estremamente discreta e silenziosa.
Molte volte mi capitava di credere d’essere solo in casa e di trovarla, invece, seduta sul divano mentre leggeva un libro o in cucina ad armeggiare tra i fornelli. Aveva un’abilità unica nel suonare in modo delicato il campanello di casa, che avrebbe dovuto emettere sempre lo stesso suono perché era azionato da un marchingegno elettrico, ma solo lei riusciva a fargli fare un trillo flebile, piacevole preludio del suo arrivo. D’estate camminava scalza per la casa, con un passo così leggero che pareva sfiorasse appena il pavimento, vestita con sottovesti chiare che le davano un’immagine eterea. E quindi quel rumoraccio delle bottiglie schiacciate con violenza sul tavolo della cucina, contrario alla sua indole docile, arrivava ancor più inaspettato e fastidioso di quanto non lo fosse già di suo. 2 Quando avevo raccontato la storia delle bottiglie al direttore, poveraccio, si era morsicato la guancia per provare a smorzare un’espressione blasfema che gli era involontariamente apparsa sul volto. Non per una gretta complicità maschile, immagino, ma per il malinconico compiacimento di costatare di non essere stato l’unico a essersi gratuitamente rovinato la vita per qualcosa di inusuale.
L’episodio che portò Dottor Resipiscenza al volontario esilio nella colonia penale di Is Arenas è troppo ridicolo perché qualcuno, lui compreso, potesse tentare di nasconderlo e infatti tutti lo conoscono, ma nessuno lo rievoca gratuitamente o con malizia. Una quindicina di anni fa, appena finita la scuola di specializzazione, ricevette l’incarico di dirigere un piccolo carcere, un centinaio di prigionieri, nella periferia di una città della Pianura Padana, non ricordo quale, ma è poco importante. Ai tempi il direttore era giovane, di buon carattere e aveva idee rivoluzionarie che applicava con l’energia propria degli entusiasti. Ben presto fece di quell’istituto un’eccellenza. Promosse numerose iniziative che impegnavano i detenuti in attività risocializzanti e produttive che procurarono, tra l’altro, un’autosufficienza finanziaria molto apprezzata nelle stanze ministeriali. Ma soprattutto accudì i detenuti schivando l’utopistico obiettivo di trovare loro uno scopo nella vita e perseguendo quello più concreto di insegnare a ciascuno un mestiere utile, semplice, adeguato alle sue propensioni e alla specifica realtà sociale nella quale sarebbe tornato appena finita di scontare la pena.
Almeno in parte ci riuscì perché divenne l’istituto con la più bassa percentuale di recidiva criminale in Italia: i detenuti uscivano dalla prigione in perfetta forma fisica e mentale, ma soprattutto capaci di svolgere il lavoro che il direttore aveva fatto loro imparare dentro le mura. Dottor Resipiscenza ricevette molti riconoscimenti e l’interesse delle istituzioni che mandarono funzionari per analizzare il suo modello e provare a replicarlo. La voce si sparse anche negli ambienti criminali: molti condannati, sapendo che su di loro pendeva un imminente ordine di carcerazione, andavano a costituirsi nel suo carcere. Sino al giorno in cui fu invitato da un professore di diritto penitenziario a una conferenza sul solito tema dell’efficacia rieducativa della pena. Quella mattina, centinaia di studenti gremivano l’aula magna dell’università, mentre il banco dei conferenzieri era nobilitato da illustri professori, dal preside dell’università e da un’affascinante sottosegretaria del Ministero della Giustizia. Dottor Resipiscenza si preparò a dovere: convertì i dati dell’istituto in numeri e quindi in percentuali che poi traspose in grafici che avrebbero dimostrato l’efficacia della sua ‘teoria dei mestieri’ nel percorso carcerario. Versò tutto il materiale in un file di presentazione PowerPoint che punteggiò con le foto dei lavori svolti dai detenuti all’interno dell’istituto. Il professore procedette a una breve relazione introduttiva e quindi presentò con entusiasmo il direttore agli studenti. Dottor Resipiscenza si alzò compiaciuto e, terminati i ringraziamenti di rito, pigiò il tasto del computer che avrebbe dovuto riprodurre nel maxischermo posto alle sue spalle i grafici e le foto che nei suoi piani dovevano accompagnare la relazione. Partirono, invece, le immagini di un pornazzo micidiale, quello che aveva iniziato a guardare la notte prima nel disperato tentativo di prendere sonno, ma che aveva immediatamente bloccato perché aveva fatto schifo anche a lui e si era quindi affidato a una più canonica camomilla. E siccome quella mattina il destino aveva già preso la sua decisione, accadde che la tastiera del computer, eccessivamente sollecitata dalla scomposta reazione del direttore, s’impallasse impedendogli di fermare le immagini di una formosa donnona di colore nuda che, tra le irresistibili risate degli studenti, sculacciava un gruppo di giapponesi altrettanto svestiti e consenzienti. La proiezione durò un paio di minuti, che in certi casi possono essere lunghissimi. E, infatti, lo furono.
©RIPRODUZIONE RISERVATA
In sintesi, ho ucciso mia moglie perché mi urtava i nervi il rumore che faceva quando schiacciava le bottiglie di plastica per compattarle. E sì che gliel’avevo detto parecchie volte. Le avevo anche spiegato che quel suono, così sgradevole e cupo, mi dava la sensazione di un osso lungo che d’improvviso si sgretola sotto il mio peso o quella dei denti che, in certi sogni ancora ricorrenti, si frantumano in bocca. E infatti, ogni volta, una scarica di brividi mi correva lungo la schiena inducendo lo sfintere a contrarsi assieme ai muscoli del collo e delle mani che si stringevano in pugni mentre la vista si annebbiava per qualche secondo. Lei, però, continuava a compattarle, forse per abitudine o per sbadataggine, ma ai tempi, in cui a onor del vero non ci stavo tanto con la testa, mi ero convinto che lo facesse apposta per farmi innervosire. Margherita, peraltro, era una persona estremamente discreta e silenziosa.
Molte volte mi capitava di credere d’essere solo in casa e di trovarla, invece, seduta sul divano mentre leggeva un libro o in cucina ad armeggiare tra i fornelli. Aveva un’abilità unica nel suonare in modo delicato il campanello di casa, che avrebbe dovuto emettere sempre lo stesso suono perché era azionato da un marchingegno elettrico, ma solo lei riusciva a fargli fare un trillo flebile, piacevole preludio del suo arrivo. D’estate camminava scalza per la casa, con un passo così leggero che pareva sfiorasse appena il pavimento, vestita con sottovesti chiare che le davano un’immagine eterea. E quindi quel rumoraccio delle bottiglie schiacciate con violenza sul tavolo della cucina, contrario alla sua indole docile, arrivava ancor più inaspettato e fastidioso di quanto non lo fosse già di suo. 2 Quando avevo raccontato la storia delle bottiglie al direttore, poveraccio, si era morsicato la guancia per provare a smorzare un’espressione blasfema che gli era involontariamente apparsa sul volto. Non per una gretta complicità maschile, immagino, ma per il malinconico compiacimento di costatare di non essere stato l’unico a essersi gratuitamente rovinato la vita per qualcosa di inusuale.
L’episodio che portò Dottor Resipiscenza al volontario esilio nella colonia penale di Is Arenas è troppo ridicolo perché qualcuno, lui compreso, potesse tentare di nasconderlo e infatti tutti lo conoscono, ma nessuno lo rievoca gratuitamente o con malizia. Una quindicina di anni fa, appena finita la scuola di specializzazione, ricevette l’incarico di dirigere un piccolo carcere, un centinaio di prigionieri, nella periferia di una città della Pianura Padana, non ricordo quale, ma è poco importante. Ai tempi il direttore era giovane, di buon carattere e aveva idee rivoluzionarie che applicava con l’energia propria degli entusiasti. Ben presto fece di quell’istituto un’eccellenza. Promosse numerose iniziative che impegnavano i detenuti in attività risocializzanti e produttive che procurarono, tra l’altro, un’autosufficienza finanziaria molto apprezzata nelle stanze ministeriali. Ma soprattutto accudì i detenuti schivando l’utopistico obiettivo di trovare loro uno scopo nella vita e perseguendo quello più concreto di insegnare a ciascuno un mestiere utile, semplice, adeguato alle sue propensioni e alla specifica realtà sociale nella quale sarebbe tornato appena finita di scontare la pena.
Almeno in parte ci riuscì perché divenne l’istituto con la più bassa percentuale di recidiva criminale in Italia: i detenuti uscivano dalla prigione in perfetta forma fisica e mentale, ma soprattutto capaci di svolgere il lavoro che il direttore aveva fatto loro imparare dentro le mura. Dottor Resipiscenza ricevette molti riconoscimenti e l’interesse delle istituzioni che mandarono funzionari per analizzare il suo modello e provare a replicarlo. La voce si sparse anche negli ambienti criminali: molti condannati, sapendo che su di loro pendeva un imminente ordine di carcerazione, andavano a costituirsi nel suo carcere. Sino al giorno in cui fu invitato da un professore di diritto penitenziario a una conferenza sul solito tema dell’efficacia rieducativa della pena. Quella mattina, centinaia di studenti gremivano l’aula magna dell’università, mentre il banco dei conferenzieri era nobilitato da illustri professori, dal preside dell’università e da un’affascinante sottosegretaria del Ministero della Giustizia. Dottor Resipiscenza si preparò a dovere: convertì i dati dell’istituto in numeri e quindi in percentuali che poi traspose in grafici che avrebbero dimostrato l’efficacia della sua ‘teoria dei mestieri’ nel percorso carcerario. Versò tutto il materiale in un file di presentazione PowerPoint che punteggiò con le foto dei lavori svolti dai detenuti all’interno dell’istituto. Il professore procedette a una breve relazione introduttiva e quindi presentò con entusiasmo il direttore agli studenti. Dottor Resipiscenza si alzò compiaciuto e, terminati i ringraziamenti di rito, pigiò il tasto del computer che avrebbe dovuto riprodurre nel maxischermo posto alle sue spalle i grafici e le foto che nei suoi piani dovevano accompagnare la relazione. Partirono, invece, le immagini di un pornazzo micidiale, quello che aveva iniziato a guardare la notte prima nel disperato tentativo di prendere sonno, ma che aveva immediatamente bloccato perché aveva fatto schifo anche a lui e si era quindi affidato a una più canonica camomilla. E siccome quella mattina il destino aveva già preso la sua decisione, accadde che la tastiera del computer, eccessivamente sollecitata dalla scomposta reazione del direttore, s’impallasse impedendogli di fermare le immagini di una formosa donnona di colore nuda che, tra le irresistibili risate degli studenti, sculacciava un gruppo di giapponesi altrettanto svestiti e consenzienti. La proiezione durò un paio di minuti, che in certi casi possono essere lunghissimi. E, infatti, lo furono.
©RIPRODUZIONE RISERVATA