La Nuova Sardegna

Sotto il Tricolore una nazione smarrita

Sotto il Tricolore una nazione smarrita

“Prima gli italiani (sì, ma quali?)” di Francesco Filippi. Fact checking che rivela il vuoto del pensiero identitario

11 aprile 2021
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Dopo “Mussolini ha fatto anche cose buone. Le idiozie che continuano a circolare sul fascismo” e “Ma perché siamo ancora fascisti. Un conto rimasto aperto” usciti rispettivamente nel 2019 e 2020 per Bollati Boringheri, Francesco Filippi, torna in libreria con “Prima gli italiani (sì, ma quali?)” (Laterza, 2021) una brillante riflessione sull’italianità e sugli italiani.

Perché è necessario questo libro e perché è necessaria questa collana?

«La collana fact checking nasce da un disagio che si è percepisce tra diversi storici che hanno notato una difficoltà, che riguarda l’Italia ma drammaticamente anche tutto l’Occidente, a far quadrare quelli che sono fatti storici con un uso strumentale della storia nei confronti del dibattito storico e politico del presente. Dalla metà degli anni ’90, con una forte accelerazione nell’ultimo decennio, abbiamo assistito ad un appiattimento su posizioni poco basate dal punto di vista storiografico riguardanti alcune questioni di interesse storico: evidentemente il ventennio per quanto riguarda il mio lavoro, ma che riguarda tutte le grandi narrazioni del novecento. Fact Checking è una collana che nasce nel 2019 sull’onda di questo confronto continuo da un’idea di Carlo Greppi e mi è parsa subito evidente la necessità di costruire un nuovo modo di affrontare i temi di carattere storiografico. Questa collana, e “Prima gli italiani”, vogliono essere un tentativo di schiarita su un panorama che al momento è molto pericoloso per i messaggi che partorisce».

Chi sono gli italiani e cosa è oggi l’italianità?

«L’italianità è un’etichetta un po’ stanca: una bandiera che non basta più per coprire la pluralità di esperienze presenti in questo Paese. È uno dei tanti costrutti del ’900 che, come tale, dovrebbe rimanere nel ’900. Dire chi sono oggi gli italiani è una cosa complessa, non è possibile trovare una definizione univoca perché dipende da quale criterio si decide di utilizzare, come racconto nel libro. Una delle cose che mi ha maggiormente colpito nello studiare la tematica riguardante gli italiani di oggi è che c’è un sacco di gente che vorrebbe essere italiana e non può esserlo perché non le viene riconosciuta la cittadinanza e paradossalmente c’è un sacco di gente che è italiana, che gode dei diritti civili degli italiani, ma che in Italia non ha mai messo piede. Questo non è un giudizio qualitativo, mi permetto soltanto di fare notare che determinate caratterizzazioni che sono state costruite nel tempo e in maniera del tutto arbitraria, definiscono di volta in volta cosa è italiano e cosa non lo è attraverso criteri del tutto inutili e opinabili. Io ritengo che ci dovrebbe essere la piena libertà: chi mette la propria identità all’interno di questa etichetta deve avere il diritto di farlo. Se invece la domanda è: tu ti senti italiano, dico che normativamente non posso negarlo, ma ammetto che in molte parti della mia vita quotidiana tutto quello che si porta dietro questa etichetta mi va decisamente stretto».

Con la pandemia è diventato più evidente il desiderio di riconoscersi sotto l’etichetta dell’italianità?

«Credo ci sia una fame identitaria che interessa tutto l’Occidente e questo è umano: riconoscersi in qualcosa è una delle prime attività dell’uomo sociale. All’inizio della pandemia ho visto fiorire due grandi racconti: quello della Nazione e quello della Guerra. Queste due narrazioni portano con sé una forza narrativa ampia perché hanno un linguaggio che le segue: in guerra, per esempio, ci sono gli eroi, ci sono i morti, la guerra giustifica i “caduti”, e soprattutto costruisce e normalizza la figura del nemico costruendo ancora una volta un “noi” e un “loro”. Queste due retoriche sono state in piedi per pochissimo, rappresentano dei tentativi effimeri di aggrapparsi all’identità, ma fanno leva sugli stessi argomenti che erano in piedi nell’Italia della fine del primo dopoguerra e sappiamo benissimo a quale grado di destabilizzazione abbiano portato. Questo non vuol dire che il covid porterà il fascismo ma in un periodo di crisi una società come quella di cui ci ritroviamo a far parte ha preso a cercare delle risposte vecchie per rispondere a problemi che sono moderni, contemporanei e proiettati nel futuro e questo mi preoccupa perché dimostra un anchilosarsi delle idee. Non è un caso che in tutta Europa, in un momento di crisi come questa, la prima identità che va estratta dal calderone sia l’usato sicuro della nazione».

Identità: è vero che quando non c’è è facile costruirla, ma quando c’è è difficile decostruirla?

«Come insegna il sociologo Benedict Anderson, le comunità immaginate sono una tabula rasa da cui chi ha interesse a creare comunità pesca linguaggi comuni: davanti a un gruppo di persone si sceglie di prendere i caratteri comuni, non necessariamente universali, ma sufficientemente maggioritari come accade sempre e in tutti i tipi di costruzione di comunità. Decostruire l’identità è più difficile perché nel momento in cui si è assunta, diventa difficile abbandonarla: se si crede di essere identificati e identificabili solo attraverso dei concetti imposti come la lingua che si parla o il territorio che si abita, quando si cerca qualcosa di diverso questo imprinting risulterà un freno perché il territorio che abiti è il territorio a cui appartieni, la lingua che parli è la tua lingua madre e abbandonare questi strascichi è molto complicato».

Lei fa spesso riferimento al fatto che quello di identità si sviluppi come un concetto intrinseco al patriarcato.

«L’Italia è piena di padri della patria: pensiamo a Cavour, a Garibaldi a cui piano piano si aggiungono altri padri. Ed è una cosa strana perché, usando la stessa retorica del senatore Pillon, sono le madri che fanno i figli. L’idea di nazione non è solamente patriarcale, ma rappresenta anche una grande strumentalizzazione del corpo femminile: lo stato che si va erigendo è Patria fino a quando tra Ottocento e Novecento non viene messa in pericolo da altri ed è qui che diventa “madre-patria”, quando bisogna spingere i figli a difendere le “nostre donne”. Questo linguaggio, fortemente sessista, è talmente radicato che ogni volta che si tenta di neutralizzare o desessualizzare determinati aspetti del dibattito pubblico c’è sempre una levata di scudi ed è anche quella una paura di perdita dell’identità. Da questo punto di vista, nella società occidentale, il tramonto del concetto di nazione va di pari passo con il tramonto del concetto di maschio. Molte persone sono spaventate dall’idea di perdere la propria preminenza e queste persone sono, di solito, maschi, adulti, bianchi, eterosessuali che pensavano che i loro valori fossero universali e che comincia a fare i conti con il fatto che ci sono un sacco di persone che a questi valori non possono aderire perché magari non sono bianche, non sono maschi, hanno una sessualità diversa».



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