La Nuova Sardegna

Quando a Ottana arrivò la petrolchimica

di Enrico Carta
Quando a Ottana arrivò la petrolchimica

Il saggio di Andrea Francesco Zedda cancella i preconcetti sul progetto di industrializzazione delle zone interne dell’isola

27 aprile 2021
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Ottana. Una parola per una storia che ne racchiude mille altre. Ottana. Un paese che è diventato tra i simboli più controversi di quel mitizzato passaggio dall’arretratezza alla modernità di tutta la Sardegna. Si è scritto tanto e tanto si è discusso su quanto avvenne a cavallo tra gli anni ’60 e ’70. Ancora oggi la questione è aperta, non solo nei dibattiti e nelle immancabili strumentalizzazioni politiche; non solo negli stereotipi che hanno quasi relegato quella narrazione nell’ambito di una ripetitività da ciclostile. Quella che somiglia tanto a una storia di frontiera, roba da romanzi di John Steinbeck, è andata davvero come per anni ci è stata narrata e ancora oggi ce la raccontiamo? È nelle 204 pagine di “E poi arrivò l’industria” (editore Donzelli, specialista in pubblicazioni di saggistica) che l’antropologo oristanese Andrea Francesco Zedda, la cui famiglia è originaria proprio di Ottana, regala una lettura diversa su quanto avvenne in quella piana in cui, all’improvviso, arrivò lo Stato.

Non è il solito resoconto storiografico che infila uno dietro l’altro avvenimenti e date o che va in cerca di novità su documenti letti e riletti, esaminati all’infinito. Il lavoro è soprattutto un tentativo di capire se quella narrazione, che ormai si è consolidata come veritiera, sia davvero la chiave di lettura giusta di quel periodo. Emerge poi l’esigenza di comprendere quanto è rimasto nel tessuto sociale odierno del periodo dell’industrializzazione. Il faro sono soprattutto le parole di chi quegli anni ha vissuto in prima persona. Ricordi che si dipanano anche attraverso una serie di interviste di quella che a suo modo fu un’epopea, una storia che da tanti viene maledetta, ma che, non fermandosi alla superficie del giudizio primo, fu davvero un momento di rinascita.

Sicuramente fu un momento di cambiamento e non per forza in peggio, fu il ritorno nel mondo di un paese che dal medioevo, quando era sede vescovile, si era trasformato solo in un trascurabile punto geografico nelle mappe della Sardegna. Il libro va allora alla ricerca di un prima e di un dopo per capire cosa davvero sia stato quel momento di transizione brusca, di accelerazione di una società che, sino a quel momento, viveva quasi fossilizzata. Non è un caso che la prima parte del lavoro sia quasi interamente dedicata al periodo che precede la calata dello Stato. Chi ha vissuto il decennio dell’immediato secondo dopoguerra, fa riferimento a quegli anni come a un’età dell’oro che però non trova riscontro poi negli stessi racconti. È il frutto del rimpianto, della malinconia ambigua che, col passare del tempo, ha modificato anche la percezione del passato.

In realtà Ottana era un paese poverissimo prima delle ciminiere. Quella pastorizia colorita dall’aura romantica non è mai esistita. E il libro lo chiarisce bene: si viveva nell’assoluta povertà, dentro un sistema economico di mera sussistenza. L’energia elettrica non era ancora arrivata in tutte le case, le fogne non c’erano e le facciate delle case stesse avevano ancora le scritte con le date del passaggio dei disinfestatori che debellavano da quella landa pianeggiante, rovente d’estate e gelida d’inverno, le zanzare della malaria. Alla malattia gli abitanti attribuivano anche la loro condizione. Pensavano che quel sangue troppe volte infetto dalla puntura dell’insetto fosse l’origine della loro arretratezza. Ma poi, per l’appunto, arrivò l’industria.

Lo Stato a Ottana, ripercorrendo il libro, ci finì non soltanto per quel tentativo di risollevare le sorti dei paesi dell’interno. Arrivò lì non perché le terre erano libere, ma perché quella era l’unica superficie pianeggiante e sarebbe stato facile tirare su le ciminiere e costruire i capannoni. Eppure quell’industrializzazione esogena finì con l’essere salutata come un ritorno a una seconda età dell’oro, quella cantata dal poeta in limba Giuseppe Soru, che ricordava nei suoi versi proprio il momento in cui Ottana era un punto di riferimento per tutta la Barbagia. Lo fu grazie all’istituzione della diocesi, prima che questa venisse trasferita ad Alghero-Bosa.

La modernizzazione però, ricorda l’antropologo, ebbe l’effetto di sconvolgere l’equilibrio secolare. Fu un ribaltamento del tessuto sociale e, quando il sogno del progresso legato all’industria svanì, lasciò dietro di sé macerie sociali ben più visibili di quelle in cemento. Da allora, la società di Ottana, a causa della visione esogena di ciò che le accadeva, è piombata di nuovo nel fatalismo. Un «così deve accadere» perché i fattori esterni impediscono a quella società di andare oltre. Era successo con la malaria, colpevole di infiacchire il fisico e gli animi di chi abitava quelle terre, sarebbe successo con l’avvento dell’industria che quelle terre avrebbe sottratto per sempre al loro immutabile destino di essere calpestate da greggi e pastori che a stento portavano a casa il pane. La ciclica alternanza di periodi di gloria e di periodi di crisi è tutta lì, figlia anche della necessità individuale e sociale di creare un passato. Che sia storico o rispondente al vero, è un aspetto secondario.

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