La Nuova Sardegna

L’INTERVISTA 

Marino Sinibaldi: «La voce vince sulle immagini»

Marino Sinibaldi: «La voce vince sulle immagini»

Durante una serata del Festival di Mantova, una signora del pubblico lo aveva definito “il profeta italiano delle parole”. Parole che sono state pane quotidiano alla Rai dove ha passato la sua vita...

09 maggio 2021
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Durante una serata del Festival di Mantova, una signora del pubblico lo aveva definito “il profeta italiano delle parole”. Parole che sono state pane quotidiano alla Rai dove ha passato la sua vita da giornalista: gli ultimi dodici anni direttore di Radio 3, creatore mito di “Fahrenheit”, trasmissione cult che dedica tre ore al giorno a parlar di libri, cioè di parole. Perché in principio era il verbo. «Il senso dell’udito è l’unica divinità che io conosco, il principale valore sacro e politico come lo intendevano Gianni Rodari e don Lorenzo Milani», osserva Marino Sinibaldi, 67 anni, dalla casa romana del quartiere Prati.

Da giovane, con Gad Lerner e Luigi Manconi, tra i leader di Lotta Continua, ideatore di tante rubriche, incontri pubblici in Italia e all’estero, continua a essere un moto perpetuo, instancabile ed entusiasta, della cultura. È diventato presidente del Centro per il Libro e la Lettura (Cepell). Da tempo sogna un’utopia: «quella di una radio che attraverso la Rete diventi un grande canale di conversazione collettiva». Una radio globale. Da comunica-tutto, visto che dalle Alpi al Gennargentu sono più di 33 milioni gli italiani che ascoltano le radio per una media di tre ore e mezzo al giorno (per l’esattezza 201 minuti). Ecco perché Sinibaldi non si si è sorpreso – anzi, ne è «strafelice» – dei risultati di un’indagine dell’azienda franco-cinese Wiko che tra followers, influencers e testimonials, dai zoomers alla generazione Z – lancia e promuove l’era della voce.

E dà alla radio, ai podcast, ai social che usano la voce, il primato tra i canali di comunicazione. «L’arte più alta è la parola», sottolinea Sinibaldi. La voce si prende la rivincita sull’immagine. Fondata nel 2011 a Marsiglia in Francia, attiva in oltre 30 Paesi, tra i marchi top di smartphone in Europa, in crescita in Asia, Africa, Medio Oriente e ora negli Stati Uniti, Wiko (La Nuova Sardegna ne ha parlato nelle settimane scorse) è membro di French Tech, agenzia governativa che promuove l’innovazione e la creazione digitale. Fa parte di Tinno Mobile Technology, specializzata nella produzione di smartphone, fondata nel giugno 2005 in Cina e ora con più di cinquemila dipendenti e un fatturato annuo di un miliardo di euro.

I messaggi vocali, soprattutto in podcast, hanno sempre più successo, addirittura sono definiti virali, un aggettivo che – di questi tempi – sa più di patologia che di fisiologia.

«Certo. Virale sta diventando un termine suicida visto l’orizzonte pandemico sotto il quale stiamo vivendo questi nostri giorni. Virale, per un periodo, è apparso collegato a euforia, a successo, ora è semplicemente spaventoso. Ma, se usiamo correttamente il vocabolario, il successo della parola, della radio, del Podcast, li definirei semplicemente eccezionali, o se volete innovativi. È la voce, il senso dell’udito che sta sorprendentemente vincendo il campionato della comunicazione. Il dialogo, le relazioni umane sono vocali, la voce resta dominante perché si rifà a quanto ho già detto, alla essenzialità dell’udito. Lo scambio principale tra gli uomini, è sempre stato il linguaggio. E lo è ancora. La ricerca franco-cinese dà un suggello in più al ruolo crescente del messaggio vocale. In sostanza si è imposta una rivalutazione, più o meno consapevole, della dimensione dell’ascolto che, da quando si è imposta l’immagine, ha subìto una sottovalutazione».

Come ha vissuto i giorni della pandemia in radio, nella sua Radio3?

«È stato faticoso. Abbiamo lavorato separati, abbiamo dovuto svuotare gli studi, privi di aerazione, si parlava a distanza ravvicinata, e poi: come disinfettare i microfoni? Tutti i conduttori in onda da casa, grazie a una valigetta chiamata Codec. Però siamo rimasti e diventati un rifugio per gli ascoltatori che avevano bisogno di sentir parole. E con le parole si è continuato a far cultura. In tutti questi anni a Radio3 – con una squadra eccezionale di giornalisti e collaboratori – ho cercato di abbattere la concezione aristocratica della cultura. La gente ha trovato da noi anche i concerti, è stata a teatro dove non poteva più vedere attrici e attori sul palcoscenico. La radio, la voce ha salvato la nostra socialità».

E ha continuato a sentir parlare di libri.

«Certo. Per almeno tre ore al giorno. È uno spazio temporale che nessun medium riserva a sua maestà il libro. Noi continuiamo a farlo perché di libri e letture abbiamo bisogno. E siamo premiati dagli ascolti. I libri sono stati un modo per diradare la nebbia che ci circonda spesso, dànno la luce, aprono orizzonti».

Anche senza far ricorso all’immagine. E se analizziamo i talk show televisivi?

«Direi proprio che i talk show in tv sono la dimostrazione più evidente del primato della voce. In uno studio televisivo, quando si litiga, quando ci si contrappone, ci si accavalla, siamo alla babele, possiamo dire che spesso non si capisce nulla? È un vocìo, non un dialogare. È un urlare, non un ragionare.

Alla radio questo bailamme linguistico non è possibile. Alla radio si parla uno per volta e l’ascoltatore capisce ciò che ciascun oratore-dialogante vuol dire. Dalla radio è stato perciò conseguente anche il salto con i social in voce: come se il cittadino-ascoltatore attendesse dalla sua radio di colmare un vuoto».

Il successo di Radio 3 è sotto gli occhi di tutti. Lo dicono i numeri, come lo spiega? Non è che i giornalisti radiofonici sono più preparati?

«Il cammino di Radio3 in questi anni è proceduto lungo questi binari: da un lato la devozione alla tradizione culturale; dall’altro la ricerca di valori ed esperienze nuove. Penso a trasmissioni come “Fahrenheit” o a “Tutta la città ne parla” per non parlare della rassegna stampa quotidiana affidata a giornalisti di prima fila e di tutte le opinioni, dal “Qui comincia” dalle 6 del mattino a tutta la nottata. Questo è diventato particolarmente vero nei tempi drammatici che stiamo vivendo. Si interagisce col pubblico, chi ascolta ha rispetto per chi parla e viceversa. Solo Radio3 ha superato quota-ascoltatore di un milione e 300 mila nel giorno medio. La televisione può fare una concorrenza quantitativa ma, anziché moltiplicare i linguaggi, li ha ridotti. In tre ore di dibattito sui libri si può essere più esaustivi. Pensiamo, per dare alla tv ciò che è della tv, al successo dei programmi di Rai5 e di RaiStoria».

Soffermiamoci sui numeri. La radio, mass-media pubblico e privato sempre più amato. Viene ascoltata, non guasta ripetersi, nel giorno medio da più di 33 milioni di italiani sopra i 14 anni, salgono 43 milioni la settimana.

«Non vorrei cadere nel conflitto di interessi anche se sono uscito dalla Rai. La radio ha saputo instaurare un rapporto straordinario che la rende unica tra i media, spinge gli ascoltatori a cercarla, sempre e comunque, per averla vicina, a casa e in albergo, in macchina e facendo jogging. Quanti sono i cittadini che - senza filtri - si sfogano alla radio? Oggi, all’ascolto che è diffusissimo, si è affiancata sempre di più la fruizione in modi e luoghi diversi tramite smartphone, tv, tablet, dab, smart speaker, pc.

C’è di mezzo sempre la voce che la fa da padrona. Alla radio - è ciò che si legge nell’indagine Wiko - non si rinuncia anche per la credibilità dell’informazione, ritenuta dai ricercatori accurata, tempestiva, attendibile e autorevole. Aggiungerei che al centro rimane l’essenzialità della parola. Parliamo al telefonino, per un’ora di seguito, anche senza aver bisogno di avere l’immagine perché con la parola ci esprimiamo più a nostro agio, siamo più spontanei e anche più concentrati. Vorrei dire che le chiamate sono più delle videochiamate. La voce ci appaga»

Un suo desiderio?

«Fare in modo che l’informazione tutta, non solo quella radiofonica o dei social, porti a un innalzamento dei livelli di istruzione. Oggi assistiamo alla rinascita dell’ascolto, del senso dell’udito, dopo aver logorato le parole, averle usate in modo distorto. Il 40 per cento degli intervistati da Wiko ha dichiarato di ascoltare i Podcast anche come arricchimento culturale o, ad esempio, per migliorare il proprio inglese. Vorrei l’uguaglianza nei livelli delle conoscenze consentendo, a tutti, tutti gli usi delle parole. Non so se è un’utopia, certamente è democrazia».



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