La Nuova Sardegna

1971. Il censimento registra la fuga dei sardi dai campi

Un campo in Sardegna in un'immagine d'archivio
Un campo in Sardegna in un'immagine d'archivio

30 novembre 2021
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Il censimento del 1971 registra che ogni cento sardi che lavorano, 32 sono addetti all'industria, 26 all'agricoltura, 41 nel terziario. E la prima volta che succede nella storia plurimillenaria dell'isola: la Sardegna non è più abitata in maggioranza da pastori e contadini, anche se non può essere chiamata un'isola di operai. La popolazione residente è di un milione 474mila abitanti, quasi 30mila in più del 1961. L'aumento nel decennio è stato molto limitato, perché gran parte delle nascite sono state compensate dal grande esodo che ha caratterizzato gli anni Sessanta, soprattutto a partire dal 1964. La densità della popolazione – indicata come uno dei mali storici della Sardegna – continua a essere una delle più basse d'Italia: 64 abitanti per chilometro quadrato contro la media nazionale di 185.

Il dato più interessante, in ogni caso, è quello che riguarda la distribuzione delle forze di lavoro fra i vari settori economici. Qualcuno arriverà a scrivere che la storia della Sardegna si può dividere in due soli grandi periodi: il primo va dall'apparizione dell'uomo in Sardegna (forse nel Paleolitico superiore, da 400mila a 150mila anni prima di Cristo) sino al 1971, il secondo dal 1971 in poi. Il fenomeno è il frutto tanto di una tendenza ormai radicata nella storia europea (l'abbandono delle campagne) quanto di una situazione congiunturale (i grandi insediamenti industriali). C'è anche la forte crescita del settore terziario, ma complessivamente non è un terziario avanzato e moderno. Crescono le città: Cagliari, che nel 1961 aveva 183mila abitanti, nel 1971 ne ha 219mila; Sassari passa da 91mila abitanti nel 1961 a 104mila nel 1971. In forte sviluppo anche città poco presenti, finora, nella storia della Sardegna, come Quartu (che nel 1971 ha già 30.335 abitanti, una decina di unità in più di Nuoro) e Olbia (25.457).
 

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