La Nuova Sardegna

Marco Lillo: «Sarde testarde contro la mafia»

di Alessandro Pirina
Marco Lillo: «Sarde testarde contro la mafia»

Il giornalista racconta in un libro con Pif  la battaglia coraggiosa delle sorelle Pilliu

09 giugno 2021
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Le sorelle Pilliu sembrano personaggi usciti dalla penna di Kafka. Ma forse neanche il grande scrittore ceco sarebbe riuscito a scrivere una storia così illogica, paradossale, assurda. Trent’anni passati a combattere contro la mafia, una vittoria dopo l’altra in tribunale, ma alla fine le uniche a pagare saranno loro. Maria Rosa e Savina Pilliu, 71 anni la prima, 65 la seconda, sono due sorelle palermitane, anche se dal loro cognome si evincono le chiare origini sarde. Nel 1942 il padre Giovanni, originario di Lanusei, sergente maggiore dell’esercito, si imbarcò sulla nave Sabaudia e arrivò a Palermo, dove conobbe la giovanissima Giovanna Aresu, che si era trasferita con i genitori da Seui nel 1936. Insomma, le Pilliu sono sarde sia da parte di padre che di madre. E, chissà, sarà anche la proverbiale testardaggine isolana ereditata dai genitori ad averle spinte a opporsi alla mafia fino a batterla in tribunale. Ora, però, lo Stato, a causa di leggi che fanno a pugni con il buonsenso, chiede di pagare quasi 23mila euro di tasse su un maxi risarcimento che loro però non hanno mai ottenuto. Una vicenda appunto kafkiana che il giornalista Marco Lillo, tra le principali firme del Fatto quotidiano, e l’attore e regista Pif hanno deciso di raccontare in un libro, “Io posso. Due donne sole contro la mafia”, edito da Feltrinelli Serie Bianca.

Lillo, quando inizia la vicenda delle sorelle Pilliu?

«Siamo a Palermo intorno al 1990. Maria Rosa e Savina Pilliu hanno ereditato dalla famiglia della madre due casette in via del Bersagliere, vicino al parco della Favorita. Fanno parte di un filare di una dozzina di piccole case. Il costruttore Pietro Lo Sicco, legato alla mafia, dopo avere comprato quasi tutte le casette, fa un’offerta alle Pilliu e alla madre per le loro, ma le donne rifiutano. Lo Sicco è solo l’ultimo di una serie di costruttori che vogliono quelle case. Ma davanti al diniego delle Pilliu lui corrompe l’assessore, ottiene la licenza comunale e comincia ad abbattere le casette per costruire un palazzo di 9 piani senza averne i titoli. Arriva addirittura a buttare giù il piano di sopra della casa delle sorelle Pilliu, che rimangono senza tetto: gli pioveva dentro casa».

E le due donne come reagiscono?

«Loro resistono e denunciano Lo Sicco per falso. Grazie a una opposizione scritta il processo può andare avanti. La loro fortuna è poi che un nipote del costruttore – che era lo “spicciafaccende” dello zio – diventa testimone di giustizia. Si presenta ai magistrati e racconta tutta la storia. Lo Sicco viene condannato nel 2001 per truffa, falso e corruzione e successivamente anche per concorso in associazione mafiosa».

Nel frattempo inizia anche la causa amministrativa per fare dichiarare abusivo il palazzo.

«Una durissima battaglia legale. Il costruttore è difeso dall’avvocato Renato Schifani (futuro presidente del Senato, ndr), ma alla fine in appello la giustizia trionfa. I giudici ordinano l’abbattimento o lo spostamento del palazzo e stabiliscono un risarcimento di 700mila euro alle sorelle Pilliu, che nel frattempo rimangono senza tetto perché una delle loro casette era crollata. E così ottengono in affitto l’appartamento che era stato occupato da Giovanni Brusca...».

Brusca?

«Sì, doveva essere un messaggio antimafia, ma questo fa capire che tipo di ambiente c’era. In quel palazzo prima ci viveva la figlia di Stefano Bontade. Anche Bagarella doveva prendere un appartamento. Poi con l’avvento della nuova mafia arrivò Brusca latitante. Insomma, le sorelle Pilliu fanno questa lotta senza neanche capire contro chi hanno a che fare».

Nel frattempo, però, le Pilliu hanno diritto ad avere i 780mila euro di risarcimento: così ha stabilito la Cassazione.

«Sì, ma sempre nel frattempo lo Stato aveva confiscato tutto a Lo Sicco e il costruttore risulta nullatenente. Le Pilliu allora fanno la richiesta come vittime di mafia, ma il ministero dell’Interno assume una decisione opinabile: dice che non c’è nesso di causalità tra la mafiosità di Lo Sicco e il danno ricevuto dalle sorelle. Questa cosa è già uno scandalo, ma c’è una beffa ulteriore».

Le tasse.

«Già. Su questi 780mila euro che Lo Sicco non pagherà mai lo Stato chiede il 3 per cento di tasse. Per l’esattezza 22.800 euro. Su questa cosa assurda io ho fatto un servizio sul Fatto, Pif l’ha affrontata al “Testimone”, se ne sono occupate anche le “Iene”. È stata sollecitata anche l’Agenzia delle entrate, ma la sua risposta è stata: la legge dice questo, non c’è modo di annullare la cartella».

E così entrate in gioco voi con il vostro libro.

«Sì, abbiamo deciso di raccontare questa storia e tutti i proventi saranno destinati a pagare la cartella esattoriale. Se poi le vendite andranno bene pensiamo di restaurare quelle casette che potrebbero così ospitare una associazione antimafia».

Crede che la beffa dello Stato rischi di vanificare il messaggio positivo delle sorelle Pilliu?

«No, perché comunque anche in questa vicenda ci sono tanti personaggi positivi dello Stato. Penso al pm Nico Gozzo che ha portato avanti le loro battaglie. O allo stesso Paolo Borsellino, che ha incontrato le sorelle Pilliu 4 volte, anche dopo la morte di Falcone lui “perdeva tempo” per ascoltare queste due signore».

La liberazione di Brusca è stata una vittoria o una sconfitta dello Stato?

«Il messaggio che Brusca esce dal carcere è un invito agli altri collaboratori di giustizia a continuare a collaborare e a pentirsi. Se collabori lo Stato ti dà la libertà, altrimenti resti dentro».


 

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