La Nuova Sardegna

SENEGHE 

Liquido e distopico, il mondo a venire di Faruk Šehic

Liquido e distopico, il mondo a venire di Faruk Šehic

“Un mondo a venire” – titolo della XVII edizione del Capodanno dei poeti, ancora oggi a Seneghe – si nutre di visioni di un presente diverso da noi. Ma può la poesia ricucire i traumi della storia?...

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“Un mondo a venire” – titolo della XVII edizione del Capodanno dei poeti, ancora oggi a Seneghe – si nutre di visioni di un presente diverso da noi. Ma può la poesia ricucire i traumi della storia? Possono le voci che risuonano dal Frutteto de' Murone dalla Bosnia, dalla Palestina, dal Medioevo femminile, favorire una lettura della realtà? E di quali idee si nutre la politica postcoloniale se parte dalla Sardegna? Tra tante questioni poste al festival di Seneghe, l'incontro con Faruk Šehic ha aperto una finestra sui Balcani, a partire dall'ultimo libro Ritorno alla natura di cui ha parlato con Elvira Mujcic.

Poeta bosniaco che ha combattuto a vent'anni la guerra del 1992, Faruk Sehic descrive un mondo a venire dalle forme mutevoli e distopiche che portano il segno di come all'improvviso i ragazzi di Sarajevo scoprirono d'essere diventati, da comunisti e mussulmani, una minoranza in un territorio da spartire.

Nelle sue poesie si ritrova, attualizzato, Giuseppe Ungaretti. Cosa ha significato per lei quell’incontro?

«L'incontro risale ai miei vent'anni, durante la guerra. Trovai allora un'antologia di poeti del XX secolo dove c'erano Ungaretti, Quasimodo, Elliot, Pound: quando l'ho letto mi ci sono riconosciuto. Quando uno vive qualcosa di tremendo, se qualcun altro te lo racconta significa che finirà. Ungaretti è stato un modo per alleggerire la mia esperienza, l'ha resa più sopportabile: un'identificazione salvifica. Quando ho scritto “I fiumi” ho scelto come epigrafe la strofa dove elenca i fiumi della sua vita. Quei versi sono penetrati in profondità, si sono incisi nel mio cervello. Per capire la propria biografia c'è bisogno di qualcun altro che renda la tua esperienza universale».

Nella sua scrittura c'è un procedere descrittivo per attraversamenti del limite, della frontiera, del fiume, quasi da geografo. Una mappatura del mondo che si rispecchia nella pelle umana e nell’universo…

Nei miei “Racconti ad orologeria”, pubblicati dopo altri libri dedicati alla guerra, il tema principale non è la guerra ma lo spazio e il tempo post apocalittico. Alcuni racconti sono di auto-fiction, altri hanno caratteristiche fantastiche. Mi sono reso conto che 25 anni dopo, la guerra, a raccontarla sembra surreale, ecco perché il post apocalittico. La memoria muta, invecchia con me. Ed è per questo che sono passato da storie totalmente realistiche a storie totalmente fantastiche. Il tempo e lo spazio sono così importanti perché nella fantascienza spazio e tempo sono le coordinate. Non scrivo racconti in modo lineare, anzi: c'è un continuo viaggiare tra creature fantastiche dai nomi inventati, c'è un ragazzino che vive dove il tempo non esiste più, che però mi serve per raccontare l'esperienza del post-trauma della guerra».

Lo slittamento continuo tra memoria e immaginazione ha l’ambizione di togliere il velo alla retorica della Storia, alla semplificazione delle cronache?

«Come ha detto Andrew Singer a proposito dei miei libri “dopo ogni Apocalisse ci vuole un po' di tempo perché vengano fuori uomini e donne sensibili per riuscire a portare fuori le storie individuali”. Non si tratta di riscrivere la storia, non sono uno storico. In bosniaco, quando si legge il destino nei fagioli, si dice: “Così è caduto il fagiolo”, il mio destino è stato di portare questi temi al pubblico europeo per far capire meglio non le brutalità che i mass media hanno raccontato, ma cosa è accaduto dentro gli esseri umani, come si sono gestiti la loro anima, senza contrapposizioni, come esperienza universale».

I suoi racconti sono pieni di riferimenti musicali e cinematografici. Quanto queste arti influenzano la scrittura e quanto invece la parola scritta mantiene una luce assoluta?

«Mi considero uno scrittore vecchio stile che non cerca in alcun modo di rendere le cose facili al lettore. Della scrittura mi interessa il potenziale visionario: utilizzo riferimenti musicali e cinematografici pop perché appartengono alla mia cultura personale. Singer ha detto che ho voluto dimostrare come fossimo tutti uguali in quella che io chiamo mappatura generazionale. Poi però, d'un tratto, nel '92, la gente della Bosnia Erzegovina ha smesso di essere quella che che andava ai concerti perché occupati nella guerra e questo ci ha definitivamente buttato fuori da un mondo comune. In quegli anni il potere politico vedeva i bosniaci come islamici, legati al terrorismo, ad al-Kaeda già prima che loro stessi si vedessero così. C'è quindi un tentativo quasi disperato di ricostruire attraverso i riferimenti culturali come come invece si era uguali. Il problema è che la destra ha questo sguardo sul mondo».

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