La Nuova Sardegna

1995. Giuseppe Vinci, 310 giorni in mano ai banditi: «Ma ho capito che era gente civile»

Roberto Sanna, 17 ottobre 1995
Giuseppe Vinci
Giuseppe Vinci

29 ottobre 2021
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Nella lunga e infame storia dei sequestri di persona in Sardegna, nessun ostaggio era rimasto più a lungo nelle mani dei banditi. Il 15 ottobre 1995, a 310 giorni dal rapimento, Giuseppe Vinci, giovane imprenditore di Macomer, viene liberato nelle campagne di Talana dopo che la famiglia ha pagato un riscatto di circa 6 miliardi di lire

MACOMER – «Non devo perdonare e non serbo rancore, perché sono stato trattato benissimo». Avvolto da una folla di ragazzini, quasi aggrappato a un mazzo di fiori che qualcuno gli ha messo nelle mani, Giuseppe Vinci fa fatica a farsi sentire. Il frastuono, la stanchezza e l’emozione hanno ridotto la sua voce a un sussurro, ma il concetto espresso è quello che più volte, qualche minuto dopo, sottolineerà ai giornalisti nel silenzio del suo salotto. Ma il primo saluto è stato per quel gruppo di ragazzini che, spontaneamente, di prima mattina avevano cinto d’assedio la villetta. Urla e cori da stadio, alla fine Giuseppe Vinci si è commosso e ha dato ai carabinieri l’ordine di farli avvicinare fino al giardino ed è uscito a salutarli. Una scena da brivido, un’ondata di affetto dopo dieci mesi di solitudine, poi il rientro dentro le mura e, quando già tutti avevano perso la speranza di poterlo avvicinare in maniera più discreta, arriva la moglie Sharon a convocare dentro casa taccuini e telecamere (...) «Ho avuto solo un momento brutto, quello del rapimento. Lì ho avuto veramente paura, sono momenti in cui non sai proprio cosa credere o pensare, ma è durato poco. Mi sono rincuorato quando li ho sentiti parlare tra loro, dire che erano preoccupati per un taglietto che mi avevano procurato sulla guancia. Dicevano che bisognava starci attenti, che non dovevano rimanere cicatrici, altrimenti, in futuro, mi sarei ricordato del sequestro ogni volta che sarei andato davanti allo specchio; allora ho capito di essere nelle mani di gente civile, e il resto dei giorni ha confermato questa impressione. Ho parlato con altri ex sequestrati, e dopo aver ascoltato i loro racconti sono sicuro di essere stato quello che ha avuto il trattamento migliore. Attorno a me ho sempre sentito serenità, mi ripetevano frasi del tipo “vedrai che tornerai a casa presto” o “nessuno ti farà mai del male”. Sono stato sempre in una grotta, isolato, ogni tanto sentivo il rumore di un elicottero. Non avevo alcun cappuccio fisso in testa, me lo calavo sugli occhi solo quando entrava qualcuno. Mi portavano una bacinella d’acqua ogni giorno per lavarmi e la scaldavano, ogni due giorni potevo radermi, avevo due cambi di vestiario e ogni sei-sette giorni cambiavo abiti. Non ho mai avuto freddo, dormivo in un sacco a pelo pesante e imbottito, mangiavo bene e molto, a volte chiedevo qualcosa di particolare e mi accontentavano. A un certo punto sono arrivato alla conclusione che il loro non era un comportamento estemporaneo; sin dall’inizio avevano deciso che avrebbero dovuto trattarmi così». Anche se 310 giorni da solo in una grotta con i propri pensieri sono durissimi: «Il problema principale era come trascorrere il tempo. Non c’era dialogo, a volte ho provato a parlare ma non mi hanno risposto, oppure buttavano lì qualche frase distratta (...)».

In una occasione in particolare un ritaglio di giornale l’ha tenuto su: «A Natale. Volete sapere come l’ho trascorso? Pensando alla fiaccolata organizzata per me, lo avevo saputo attraverso i giornali e mi ha sollevato il morale. Quel giorno sono stati gentili, mi hanno portato anche una fetta di panettone (...)». Infine, il momento del ritorno: «Ho camminato molto, accompagnato, poi domenica mattina mi hanno lasciato da solo. Ero tranquillissimo, ho aspettato per qualche ora che venisse mio padre a prendermi, ma quando ho visto che non arrivava mi sono incamminato verso strada, avevo paura di arrivare a notte fonda. Ho visto la corriera, l’ho fermata, ho chiesto un passaggio. Perché non mi sono presentato all’autista? Non lo so, è stato un atteggiamento istintivo, senza un motivo particolare. Arrivato in paese, la prima cosa che ho pensato è stato andare alla stazione dei carabinieri e avvertire la mia famiglia. Un’altra emozione è stata quella di trovare questa grande accoglienza qui, a Macomer. Sono rimasto molto colpito da tutta quella gente che piangeva, gridava il mio nome, era felice di rivedermi a casa. Sono cose che non si dimenticano».

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