La Nuova Sardegna

Grazia Deledda, errori e orrori della critica letteraria

di Alessandro Marongiu
Grazia Deledda, errori e orrori della critica letteraria

Da Serra e Momigliano sino alle più recenti letture in chiave femminista, con molta retorica fuori luogo

27 novembre 2021
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Quella tra Grazia Deledda e la critica è una storia lunga, complessa e accidentata.

Cominciamo col dire che dalla straripante quantità di pagine spese sulla Deledda e dalla varietà del loro contenuto potrebbe originare un genere letterario a sé stante. Non fosse che, mentre ancora si sta battezzando questo possibile genere, i generi sono già diventati due: perché da un certo punto in avanti, sacrificando non di rado il contatto diretto con le opere, alla critica sulla Deledda si è sovrapposta come per gemmazione la critica della critica sulla Deledda. Con il risultato che l’autrice, ahilei, si è venuta sempre più a sfuocare dentro all’obiettivo di chi l’avrebbe dovuta mettere in quadro. Per giunta, con il sommarsi nei decenni di interventi saggi profili convegni repertori omaggi (di cui si dimenticano quanti sproloquiano di una Deledda “dimenticata”), spesso i critici si sono rifatti a giudizi e concetti di terza o quarta mano, sui quali potenzialmente avevano già fatto la loro comparsa agenti inquinanti di vario tipo: dimenticanze, abbagli, mistificazioni.

Vediamo un caso esemplare: Renato Serra e Attilio Momigliano. Scrive Serra nel 1914, nel suo classico “Le lettere”, che i romanzi della sarda hanno un respiro «largo e profondo che finisce per trasportare uomini e cose e paesi (…) in un’atmosfera propria, quasi di commossa verità», e che dopo un periodo in cui ha cercato nuove strade, la Deledda è tornata all’antico e «l’ha ripreso in certe cose ultime con una maturità e quasi una fusione più calda di quegli elementi semplici e comuni». Celebre la sua sintesi: tra quelli dell’epoca, siamo davanti allo «scrittore che si presterebbe di più a essere trattato seriamente». Così invece Momigliano nel suo, di classico, “Storia della letteratura italiana” del 1936: dopo aver attribuito all’autrice come data di nascita il 1875 (è il 1871) e aver sentenziato che il migliore dei suoi libri è “Elias Portolu”, per “La madre” - considerato «di poco inferiore» - il critico parla di «relativa monotonia» e di «un certo ristagno»; per “Marianna Sirca” di generale assenza di «intonazione giusta» e di «psicologia fantastica, senza un fondo solido»; per “Canne al vento” di «intelaiatura incerta» e di «ambiguità di impostazione». La sintesi, qui, non lascia scampo: «È mancata troppo spesso alla Deledda la forza dei massimi scrittori i quali sanno rimaner fedeli a se stessi anche dopo il primo trionfo e far convergere le forze dell’istinto e della consapevolezza artistica, senza che quello spadroneggi e questa contraffaccia».

Di dubbi sembrano non potercene essere: quel che Serra esalta, Momigliano atterra. Ora, si dà il caso che per tanta critica (della critica) deleddiana le cose stiano all’opposto: Serra è stato il feroce stroncatore, Momigliano il felice interprete delle massime virtù della scrittrice. Possibile? Sì, perché con il tempo, come accaduto per numerosi altri giudizi e concetti articolati, di Serra si sono tramandate poche frasi estrapolate da un’argomentazione di tre pagine (che nessuno, è evidente, è più andato a rileggere): il giudizio negativo era rivolto solo alle novelle, non ai romanzi e non al profilo dell’autrice nel suo complesso. Di Momigliano s’è invece estrapolata un’unica definizione («Nessuno dopo il Manzoni ha arricchito e approfondito come lei, in una vera opera d’arte, il nostro senso della vita») da un paragrafo che di pagine ne contava otto.

È vero che Momigliano concludeva vantando come pochi la Deledda: ma lo fece giungendoci da un percorso eccezionalmente contraddittorio. La cosa non sfuggì già nel 1937 a Pietro Pancrazi, che segnalò come quelle pagine del collega, «ancora un po’ incerte, tumultuose», in sé non erano affatto capaci di giustificare un «così deciso giudizio» positivo.

Si dirà: storie vecchie. E invece capita di prendere in mano un volume di saggi del 2012, “Grazia Deledda. Una sfida alla modernità”, e di leggervi quanto segue, a firma Janice Kozma (a cui si deve anche un’intera monografia sulla nuorese): «Renato Serra, come da consuetudine, si espresse in termini assolutamente negativi su Grazia Deledda: trovava che nella sua opera, semplicemente tediosa, non ci fosse nulla da redimere; vedeva nella scrittrice una mediocrità esasperante». Come se non bastasse, il volume citato è la traduzione in italiano di un equivalente in inglese del 2007: il rischio, concreto, è quindi che all’estero la ricezione della Deledda ne sia ampiamente falsata.

Vicende simili, però, da un po’ di anni a questa parte stanno passando in secondo piano (secondo si fa per dire). Perché la Deledda è prima stata trasformata da autrice di romanzi e novelle in personaggio da raccontare, tra biografie e rincorse tra l’uno e l’altro a chi trova l’aneddoto più remoto o sepolto, e poi, più recentemente ancora, da personaggio da raccontare in una sorta di bandierina avulsa da qualsiasi contesto, che ognuno sventola a piacimento in base ai propri scopi. Così, capita di leggere o sentire discorsi – infarciti quasi sempre di inesattezze, approssimazioni e perfino errori grossolani – che cominciano con “Grazia Deledda” e terminano con “empowerment femminile”, “MeToo” e “parità di genere”. Non ci sarebbe niente di male, e anzi saremmo ben felici di condividerli, se dietro ci fossero studi che testimoniassero che la Deledda ha detto o fatto certe cose con precise intenzioni e con il senso che si dà, nel Terzo millennio, a certi termini e istanze. Al momento si sente e si legge perlopiù molta retorica, e vuota: e non è una buona notizia per nessuno, men che meno per la Deledda autrice e persona, e per la sua grande complessità.

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