Giorgio Pasotti: «Noi attori dobbiamo seminare per creare il pubblico del futuro»
L'artista bergamasco metterà in scena un “Hamlet” più moderno
Sarà Giorgio Pasotti a tenere a battesimo la stagione di prosa del Cedac. L’attore bergamasco, trasversalmente amato da cinema e tv, metterà in scena l’immortale “Hamlet” di Shakespeare al Massimo di Cagliari dal 9 al 13 novembre. Al suo fianco una delle signore del teatro italiano, Mariangela D’Abbraccio. Un testo, quello del Bardo, di oltre 400 anni fa che però presenta elementi di strettissima attualità.
Pasotti, Amleto è forse il personaggio con più rappresentazioni teatrali al mondo: come si differenzia il suo dagli altri?
«L’Amleto ha più di 400 anni. Chissà in questi secoli quanto pubblico ha avuto, in quante parti del mondo e in quante lingue è stato rappresentato. Sarebbe folle pensare che il mio sia diverso dagli altri. Non abbiamo questa ambizione, ma puntiamo a rimanere fedeli al testo, tirando fuori quello che l’autore ci suggerisce».
Quanta modernità c’è nel testo di Shakespeare?
«Noi utilizziamo diverse chiavi attuali che non sono inventate, ma amplificate rispetto a quanto scritto da Shakespeare. Nel nostro spettacolo c’è Gertrude, ossessionata dalla chirurgia estetica e assente come madre. Un aspetto che si legge tra le righe di Shakespeare, molto presente nella società di oggi, dove uomini e donne sono concentrati su se stessi, sul lavoro, sulla carriera, facendo venire meno i doveri di genitore. È un testo attualissimo. Non dobbiamo fare altro che tirarlo fuori e usare un linguaggio più moderno che possa incuriosire quel pubblico che oggi a teatro non va più. È dovere di un attore seminare per costruire il pubblico del futuro per quando gli abbonati - per noi sacri - non ci saranno più».
Come si fa?
«Nel nostro spettacolo, per esempio, c’è un impianto scenografico tecnologico e molto avanzato, di quelli che raramente si vedono a teatro. Questo anche per andare incontro al pubblico di nuova generazione. Si vedrà il nostro Amleto camminare, correre in una foresta, precipitare in un canyon dove recita il celebre essere o non essere».
Si è confrontato con qualche Amleto del passato?
«Credo di avere visto Amleto in ogni forma, anche in versione zombie: talvolta penso che il Bardo si sia rigirato nella tomba. Al di là di questo, ritengo che non bisogna pensare di fare qualcosa di diverso. Bastano le parole di Amleto. L’originalità sta nel restituire quei temi in chiave di linguaggio. E comunque ho conosciuto grandi attori di teatro, ormai anziani, che hanno il dente avvelenato perché non sono mai riusciti a fare Amleto. Per un attore è la prova delle prove».
Essere o non essere: il grande dubbio amletico di oggi?
«Nel mondo avviene di tutto ma bisogna continuare a vivere sorridendo. Questo è il grande dilemma. Un mondo in cui si è costretti a vivere nella superficialità, quasi fosse un peccato scendere in profondità. Questo è preoccupante, assurdo: sentirsi liberi oggi ha un prezzo».
Alcune sue parole su Giorgia Meloni («è vittima di un attacco barbaro») hanno sollevato un polverone: a un artista conviene parlare di politica?
«Meglio continuare a parlare del proprio lavoro per non essere strumentalizzati. Quando c’è cattiveria, faziosità, le frasi vengono estrapolate e usate per scopi diversi da quello che era il pensiero originale. A me era sembrato naturale difendere una donna sotto attacco. Sono stato educato a proteggere sempre le persone in difficoltà. Ma oggi tutto viene strumentalizzato da una parte o dall’altra. Dunque, meglio tacere».
La sua è una biografia unica: lei nasce campione di arti marziali. Ci sono similitudini tra lo stare sul tappeto e sul palco?
«Non avendo fatto scuole di teatro o accademie mi sono sempre appoggiato sulle cose che sapevo fare meglio, muovermi all’interno di uno spazio. Nel nostro mestiere insegnano che si parte dall’aspetto psicologico per poi passare a quello fisico. Io ho fatto sempre il contrario, che è quello che ti insegnano a non fare. Era il mio background ed è diventata la mia caratteristica».
Muccino, Accorsi, Mezzogiorno, Favino, Impacciatore, Santamaria, ovviamente Pasotti: cosa è stato “L’ultimo bacio” per il cinema italiano?
«Da un lato è stato un laboratorio, dall’altro un film spartiacque. “L’ultimo bacio” ha dato il via a una infinità di commedie su famiglia, figli. È stato un fenomeno di massa che nessuno si aspettava: c’erano coppie che entravano in sala insieme e uscivano separate, perché si riconoscevano nei difetti dei protagonisti. Ma è stato anche un film spartiacque per un certo tipo di recitazione. Fino ad allora i grandi del passato sembravano inarrivabili, con “L’ultimo bacio” ci siamo liberati di quel peso e abbiamo iniziato a camminare con le nostre gambe».
La grande popolarità con “Distretto di polizia”: fu un dubbio amletico dire addio al personaggio di Paolo Libero?
«Feci “Distretto” contro il volere di tutti, io non ho mai distinto tra cinema e tv, ma tra progetti belli e brutti. Ma alle serie bisogna stare attenti, rischiano di essere una prigione. Fin dalla prima lettura della sceneggiatura avevo pensato che questo eroe romantico dovesse fare una fine da eroe. Gli sceneggiatori volevano spostarlo in un’altra città, fui io a chiedere di farlo morire».