La Nuova Sardegna

L'intervista

Remo Girone: «Ricordiamo l’orrore nazista per evitare che possa ripetersi»

di Alessandro Pirina
Remo Girone: «Ricordiamo l’orrore nazista per evitare che possa ripetersi»

L'attore a Sassari e Cagliari nei panni di Simon Wiesenthal

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La sua carriera è una altalena di ruoli positivi e negativi. Il grande pubblico lo ha conosciuto nei panni di Tano Cariddi, il cattivo della Piovra dei record, ma in tanti anni di cinema e tv Remo Girone è stato Desiderio il re dei Longobardi, Senza Nome l’antagonista di Fantaghirò, Ferruccio Novo presidente del Grande Torino, Ponzio Pilato, Pio XII, l’alter ego di Callisto Tanzi nel crac Parmalat cinematografico, Enzo Ferrari al fianco di Matt Damon e Christian Bale. Ora l’attore, nato ad Asmara nel 1948, arriva nei teatri sardi nei panni di Simon Wiesenthal, il “James Bond ebreo", sopravvissuto alla deportazione e all’orrore dei campi di sterminio, che ha dedicato la sua esistenza all’identificazione e condanna dei nazisti, responsabili della morte di milioni di persone, in nome di un ideale di giustizia, affinché i loro crimini non restassero impuniti. “Il cacciatore di nazisti”, scritto e diretto da Giorgio Gallione, sarà sotto le insegne del Cedac martedì 31 gennaio alle 21 al teatro Comunale di Sassari e dal 1 febbraio fino al 5 febbraio al teatro Massimo di Cagliari.

Girone, come si è avvicinato al personaggio di Wiesenthal?

«Innanzitutto, leggendo i suoi testi. Poi ho guardato video su di lui, interviste, film come “Dossier Odessa” e “I ragazzi venuti dal Brasile”, dove Gregory Peck fa Mengele e Laurence Olivier ha il ruolo di Liberman, che non era altro che Wiesenthal».

L’Olocausto è stata una delle più brutte pagine scritte dalla umanità. Cosa l’ha colpita delle pagine di Wiesenthal?

«Lui ha affrontato un viaggio, ma è sempre rimasto lì. Non ha mai cercato di dimenticare come è successo a molti, che invece hanno preferito rimuovere. Wiesenthal, dopo avere vissuto l’orrore, ha continuato a documentarsi, perché - sosteneva - se quanto è successo si dimentica c’è il rischio che possa ripetersi; parlandone si mette la gente sull’avviso del pericolo. Questa è stata la cosa che lo ha spinto più di tutto. E poi di lui mi ha colpito il desiderio di fare giustizia. Alla fine, però, non si considera un eroe. “Ne ho preso solo 1100 su 22500 – diceva –. Se sono un eroe lo sono al 5 per cento”».

Ha mai visitato un campo di concentramento?

«No, ma ho visto tanti filmati. Il primo shock fu quando vidi i primi documentari sul processo di Norimberga. Ancora oggi ricordo quelle immagini».

Il 27 è la Giornata della memoria e Liliana Segre ha detto che fra pochi anni la Shoah sarà solo una riga sui libri.

«Condivido il suo timore, soprattutto perché ormai i sopravvissuti sono pochi. Ma i giovani devono sapere ed è su di loro che bisogna lavorare. Dagli scritti di Wiesenthal emergono cose veramente terribili di cui neanche io ero a conoscenza».

Dopo il suo esordio in Eritrea un critico scrisse: questo ragazzo diventerà un grande attore. Che ricordi ha di quel bambino di 10 anni?

«A scuola ogni anno a giugno montavamo un’operetta in cui facevo sempre il protagonista. E poi ho fatto teatro universitario. In Italia non si parla mai di teatro amatoriale, che, non solo è una fucina di attori, ma è anche quello che ti fa capire se ami questo mestiere o no. Fare mesi di prove per due ore di spettacolo in un teatrino è segno di grande passione per la recitazione».

A Roma ha fatto l’Accademia d’arte drammatica.

«Otto ore al giorno per tre anni senza poter lavorare. La consiglio sempre perché è lì che si verifica la passione vera, che capisci se quello è il tuo vero lavoro».

La grande popolarità arriva con la Piovra. Non crede che ai tempi la distinzione tra bene e male fosse netta a differenza dei film e delle serie di oggi?

«Nella Piovra la distinzione tra bene e male, tra Cattani e Cariddi, è stata una decisione a livello di produzione e di sceneggiatura. È vero che in Gomorra non si vede mai la polizia, ma anche quella è una volontà precisa per mostrare che la loro non è una scelta di vita che vale la pena fare. E comunque non si può dire che Gomorra sia una serie che non denuncia la malavita».

Il personaggio di Tano Cariddi è stato il primo a raccontare un mafioso legato alla finanza.

«Per la prima volta si vedevano i colletti bianchi. Tano non è mai stato affiliato alla mafia: faceva gli investimenti, usava i soldi della mafia, ma lavorava solo per se stesso. Ricordo una scena: “Tano, per chi lavori adesso?”. E lui: “sempre per il medesimo padrone: me stesso”».

Messina Denaro, 30 anni latitante, faceva una vita quasi normale. Qual è la sua opinione?

«Ancora la gente ha paura, perché effettivamente questi sono potenti e fanno paura. Non credo che tutti abbiano taciuto, ma mi sembra improbabile che nessuno sapesse».

Trent’anni fa sfumò la partecipazione a Sanremo con Marcella Bella. Rimpianti?

«Era stata una cosa divertente. Gianni Bella aveva scritto una canzone per Marcella, lei avrebbe dovuto cantare, io parlare. Non ci presero, ma nessun rimpianto».

Oltre il teatro quali altri progetti ha?

«Ora sono su Netflix con “Il mio nome è vendetta”, presto sarò un medico in “Tutti amano i diamanti”, una serie Amazon con Kim Rossi Stuart. E più avanti al cinema avrò un ruolo molto carino in “The equalizer 3” al fianco di Denzel Washington».

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