La Nuova Sardegna

27 gennaio

Giorno della memoria, il dramma della deportazione nelle testimonianze dei sopravvissuti

di Gabriella Nocentini *
Giorno della memoria, il dramma della deportazione nelle testimonianze dei sopravvissuti

La storia delle sorelle Zaira e Ione Coen, arrestate il 15 aprile 1944 a Firenze e assassinate il 23 maggio 1944 ad Auschwitz

27 gennaio 2023
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Dopo nove anni dall’articolo scritto per “La Nuova” insieme a Elisabetta Francioni (Zaira, da Sassari al lager, 26 gennaio 2014) l’occasione di tornare a parlare di Zaira Coen Righi è offerta dalle pietre d’inciampo che sono state collocate il 13 gennaio scorso davanti all’abitazione di via Giambattista Vico 11, a Firenze. Da qui è iniziato il triste cammino di Zaira e della sorella Ione che le condurrà al campo di concentramento di Auschwitz.

Le pietre d’inciampo, piccoli blocchetti di pietra rivestiti di ottone, con incisi i dati del deportato, create dall’artista tedesco Gunter Demnig, si sono rapidamente diffuse in tutta Europa e oggi sono più di 80.000. Sono poste a ricordo delle vittime del nazifascismo: ebrei, deportati politici, prigionieri del Reich, omosessuali, Rom e Sinti, testimoni di Geova, disabili. Il grande merito è che per esistere queste pietre necessitano di una ricerca storica. Stimolano e portano a conoscenza i nomi, i fatti, le situazioni e le ragioni per cui queste persone sono state uccise. E benché nulla ci dicano di quel passato di violenza, dovrebbero, muovendo dalla pietà per quei tragici destini, spronarci allo studio delle cause, cioè del fascismo e del nazismo. E proprio quest’occasione ha fatto emergere nuovi interrogativi circa Zaira e la sua famiglia, attraverso notizie date dai discendenti. Cerchiamo di ripercorrere, per quanto possibile, gli avvenimenti dell’ultimo periodo nella vita di Zaira.

Rimasta vedova nel 1938, anno in cui fu allontanata dall’insegnamento, decise di lasciare la Sardegna, andando contro i consigli dei parenti del marito che le offrivano protezione. Raggiunse un fratello, Gaddo, e una sorella, Norina, che stavano a Genova con le loro famiglie. Dopo la nascita della Repubblica di Salò era iniziata la caccia all’ebreo: il 3 novembre 1943, Norina Coen venne arrestata con il marito Giorgio Baquis e la figlia Giuliana. Trasferiti alle carceri di Milano, furono deportati ad Auschwitz il 6 dicembre 1943. Non si conoscono né la data né il luogo di morte. Possiamo solo immaginare come questa notizia avrà gettato nel più profondo sconforto tutti i parenti. Zaira, rimasta a Genova per un breve periodo in casa del nipote Guido, figlio di un’altra sorella, Rachele, decide di raggiungere a Firenze la sorella Ione, anche lei vedova. Certo essere insieme dava loro una maggior forza per affrontare quel terribile periodo, in cui si diffondevano le notizie più disparate. Zaira e Ione non cercarono di allontanarsi da Firenze, di mettersi in salvo in luoghi meno esposti: rimasero in casa sperando di sfuggire agli arresti. In particolare, la scelta sciagurata di lasciare Sassari e raggiungere Firenze si dimostrò fatale per Zaira: quanto diversa sarebbe stata la sua sorte se si fosse nascosta a Osilo, il paesino sardo che tanto amava!

Il 14 novembre 1943 a Verona, fu approvato il programma in 18 punti (noto come “Carta di Verona”) con gli obiettivi che il Partito Fascista Repubblicano si proponeva: al punto 7 si legge che gli appartenenti alla “razza ebraica” devono essere considerati stranieri e, durante la guerra, nemici. Il 30 novembre 1943 il ministro dell’Interno firmò l’Ordinanza n. 5, che obbligava la polizia italiana ad arrestare tutti gli ebrei al di là della nazionalità e della residenza e ad internarli in appositi campi di concentramento, uno per Provincia. L’ordine specificava inoltre che i loro beni andavano confiscati. Da qui in avanti i nazisti poterono quindi contare sui fascisti per la cattura degli ebrei. Questo fu particolarmente vero a Firenze. La città, infatti, si distinse dal resto della Toscana per la presenza del commissario prefettizio per gli Affari Ebraici, Giovanni Martelloni. Convinto fascista, la sua febbrile attività fu molto odiosa: non si occupò solo del sequestro e della gestione dei beni ebraici come il suo ufficio richiedeva, ma fu il centro motore della persecuzione degli ebrei, procedendo anche personalmente agli arresti.

Ma non basta: a Firenze era presente la Milizia volontaria per la Sicurezza nazionale capeggiata da Mario Carità, che con una rete di efficienti delatori operava in un edificio soprannominato (non a caso) “Villa Triste”, sede di una sezione della polizia politica tedesca. Anche la “Banda Carità” si occupava dell’arresto degli ebrei. Insomma, era davvero molto pericoloso trovarsi a Firenze in quei mesi.

E le sorelle Coen non sfuggono alla delazione. È il portiere dello stabile a denunciarle. Oltre a riscuotere la taglia che spettava per ogni ebreo fatto catturare, pare che fosse interessato agli oggetti di valore custoditi in casa. Con molta probabilità, ad arrestarle il 15 aprile 1944 furono agenti di pubblica sicurezza italiani, mentre i beni e i preziosi finirono quasi sicuramente all’Ufficio Affari Ebraici.

Zaira e Ione sono portate nell’ex monastero di Santa Verdiana, le carceri femminili dove venivano rinchiuse le ebree, anche con bambini piccoli. La vita nelle celle umide e strette doveva essere particolarmente dura, anche se la presenza di una suora, madre Ermelinda Carducci, contribuiva a rendere meno gravoso lo stato delle detenute. Molti sono gli atti di generosità che le si ascrivono, a rischio della propria vita, come l’essersi adoperata per tenere divise le “politiche” e le ebree dalle prigioniere per reati comuni.

Santa Verdiana è oggi sede della Facoltà di architettura. Gli archivi delle carceri sono andati distrutti nell’alluvione del 1966: non è possibile dunque sapere nulla sulle detenute che a quel tempo vi sono state rinchiuse.

Il 23 aprile 1944, le sorelle Coen vengono trasferite insieme ad altri ebrei, a bordo di camion, nel campo di concentramento e di transito di Fossoli (Carpi, Modena). Il campo di Fossoli, che era nato nel 1942 per prigionieri di guerra inglesi, venne occupato militarmente dai nazisti il 9 settembre 1943. Dal 5 dicembre 1943 al 15 marzo 1944, oltre alla presenza dei prigionieri politici, la RSI dette il via al “Campo di concentramento ebrei”, in cui furono ospitate famiglie ebree, sia italiane che straniere. I nazisti iniziarono in febbraio le deportazioni nei lager. Dal 15 marzo 1944 ai primi di agosto 1944, il Comando di Verona della Polizia di sicurezza germanica (Befehlshaberder SIPOSD) assunse il controllo diretto sugli internati politici e razziali con le SS alle dipendenze del tenente Karl Titho e del sergente maggiore Hans Hage.

Sulla vita nel campo di Fossoli abbiamo la testimonianza di una deportata, Frida Misul, una venticinquenne di Livorno che si trovava a Fossoli proprio quando vi giungono le sorelle Coen e partirà per Auschwitz con lo stesso loro convoglio il 16 maggio 1944. Essa è una delle pochissime donne che subito al ritorno, nel 1946, scrisse la sua esperienza nel libro Fra gli artigli del mostro nazista: la più romanzesca delle realtà, il più realistico dei romanzi. Eccone un brano:

“[…] La mattina ci davano caffè nero, a mezzogiorno due etti di pane e una tazza di minestra. Il terzo giorno cominciò ad arrivare gente: erano tutti ebrei di Firenze, fra i quali molte donne, bambini e vecchi paralitici. […] La mattina del 16 maggio, di nuovo tutti in appello, ci guardavamo presagendo qualcosa di grave. Infatti giunse poco dopo il Maresciallo tedesco con una lista di nomi: quelli che chiamava, sarebbero partiti il pomeriggio “per destinazione ignota” […] Tutti ci guardammo in faccia pensando quale sorte ci sarebbe toccata. In fretta e furia ci fecero preparare le nostre cose, scrivemmo poche righe a casa, solo saluti, e fummo adunati in mezzo al piazzale. Ad uno ad uno ci fecero salire sull’autobus e da qui arrivammo alla stazione. Eravamo in tutto 800 persone. Giunti alla stazione ci fecero salire su dei carri bestiame mettendoci 80 per vagone, ci dettero un filoncino di pane e poi con disprezzo e risa, ci chiusero dentro con dei grandi catenacci, piombarono i vagoni e ci spedirono come merce qualunque per destinazione ignota. Che tristezza regnava nei nostri cuori! I malati non respiravano, i bambini impauriti stavano avvinghiati alle loro madri. Insomma, su tutto il vagone regnava sgomento e disperazione: qualcuno malediva quei cani barbari che ci trattavano così senza pietà […] Venne la sera e la notte ci trovò così in piedi senza un piccolo spazio per poterci sdraiare e ci litigavamo perfino per conquistare pochi centimetri. Da ogni parte si sentivano pianti di disperazione, urla di rabbia, fiochi lamenti e pianti di bambini. Ogni due giorni ci veniva distribuito un po’ di pane e di acqua. Eravamo al quinto giorno di viaggio e non ne potevamo più. Senza poter dormire né lavarsi, si soffocava, e ci auguravamo la morte che sarebbe stata la nostra liberatrice. Al sesto giorno il convoglio si fermò e credemmo di essere arrivati, invece la meta era ancora lontana. Ci fecero scendere per prendere un po’ d’aria e per poter soddisfare i nostri bisogni fisiologici; demmo sfogo così a tutto dimenticando ogni vergogna di fronte ai tedeschi con il mitra puntato. Volevano che ci sbrigassimo e qualcuno, ridendo, mentre eravamo in certe posizioni, ci fotografava prendendo così delle belle foto che i fascisti della Brigate Nere avrebbero conservato con orgoglio come testimonianza delle loro bravate, ridendo tanto da comprimersi la pancia. Poi alla svelta ci fecero risalire nel carro bestiame, ci rinchiusero di nuovo e il treno si rimise in moto”.

Un altro deportato, che si trovava sullo stesso convoglio e ha scritto di quel tremendo viaggio, è il fiorentino Nedo Fiano, allora diciannovenne. Egli era addirittura un lontano parente delle sorelle Coen: infatti, una loro cugina, Lilia Di Porto, aveva sposato Enzo Fiano (fratello di Nedo) e da lui aveva avuto un figlio, Sergio di un anno e mezzo. Furono arrestati tutti, anche i genitori di Enzo e Nedo. Portati in date diverse prima in carcere a Firenze e poi a Fossoli, moriranno ad Auschwitz, sopravvive solo Nedo. Nel 2003 pubblicherà le memorie del lager nel libro dal titolo A 5405: il coraggio di vivere, da cui riprendiamo questo brano:

“[…] Le 850 persone provenienti dal Campo di Fossoli furono chiamate in ordine alfabetico e fatte salire sui vagoni, in sosta fuori dalla stazione, per non dare nell’occhio. […] I pessimisti, che incalzavano gli ottimisti, non lasciavano neppure un briciolo di speranza. I bambini piangevano perché le mamme, dopo due o tre giorni, non avevano più il latte. La mancanza di spazio, i bisogni corporali. La sete, il cattivo odore […] Spesso abbandonavano il nostro convoglio sui binari morti e ci pareva di precipitare nel nulla, nel vuoto”.

Italo Tibaldi, partigiano piemontese, superstite del lager di Mauthausen (nel 1945 aveva 18 anni), ha dedicato tutta la vita alla ricostruzione della composizione dei convogli che trasportavano i deportati italiani nei lager nazisti. Nel suo libro del 1994, Compagni di viaggio, sono riportati i nomi dei superstiti dei singoli convogli. Secondo la sua numerazione, quello di Zaira era il numero 46. Di tutta la deportazione italiana questo è il viaggio che è durato più a lungo, sette giorni. Una parte del convoglio fu deviata dopo Innsbruck a Bergen Belsen. Gli altri deportati, 581 tutti identificati, fra cui 55 fiorentini, arrivarono nel campo di Auschwitz II-Birkenau, il 23 maggio 1944. I sopravvissuti saranno 60, tra cui Fiano e la Misul.

Ancora le parole di Nedo Fiano, su quel terribile trasporto: “A notte fonda il convoglio entrò dentro il Lager di Birkenau. C’era un cielo stellato blu intenso. Dalle piccole feritoie del vagone vedevamo la prospettiva senza fine del campo. Centinaia, migliaia di piccole lampadine sul filo spinato […] Stavamo entrando in un luogo non bel definibile per il buio intenso della notte, ma percepivamo una nuova dimensione. Nei vagoni bestiame, dove eravamo stati rinchiusi per sette giorni e sette notti, eravamo posseduti da una grande paura. Malgrado il fetore prodotto dai rifiuti e dal cadavere che giaceva accanto a noi da cinque giorni, sporchi perché non ci eravamo mai lavati per tutto il viaggio, percepimmo che eravamo giunti alla stazione finale. Avevamo visto da una feritoia una fiamma gialla e sinuosa uscire da una ciminiera. La più parte di noi pensò che si trattasse di un edificio industriale. Eravamo lontani una galassia dall’immaginare la verità. Dopo una notte insonne piena di domande e congetture, alle prime luci dell’alba udimmo gridare: “Alle aussteigen! Los! Los! Bewegung!”. I vagoni vennero aperti e gli SS ai piedi del nostro convoglio continuavano a gridare, tenendo i cani al guinzaglio e minacciando con i bastoni che talvolta colpivano chi tardava a scendere […] Una visione apocalittica di persone, pacchi, valigie, grida, pianti, latrati di cani, urla delle SS […] Dove eravamo? Cosa ci avrebbero fatto?”.

Quando il 23 maggio 1944 arriva il convoglio, erano già stati costruiti i binari che entravano direttamente dentro il lager di Auschwitz. La selezione degli abili al lavoro schiavo per l’industria bellica del Terzo Reich veniva fatta lì sul marciapiede e gli inabili erano avviati a piedi alle camere a gas, all’interno del lager.

Frida Misul scrive a questo proposito: “Dopo la selezione, rimanemmo 65 ragazze, tutte robuste”.

In queste pochissime parole si racchiude tutto il dramma di Zaira, 64 anni, e Ione, 60: sono stücke (pezzi), da eliminare subito. Correre velocemente alle “docce”, spogliarsi, legare appaiate le scarpe, riunire i vestiti, entrare nell’enorme stanza interrata e aspettare il gas Zyklon B.

* insegnante

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