Marras racconta Grazia Deledda: «Una storia di nuragica modernità»
La scrittrice ispira la collezione della Milano Fashion Week
Aperto il sipario sulla Milano Fashion Week Autunno Inverno 23\24, la giornata inaugurale di ieri ci ha offerto l’attesissima sfilata-evento della Maison Marras, che lo stilista ha dedicato per la prima volta a Grazia Deledda.
Raccontando, attraverso gli abiti, la sua visione del potente e inarrivabile talento della scrittrice sarda, Antonio Marras ci ha portato “fisicamente” nella fantastica “Foresta di Burgos” tratta dal racconto di Patrizia Sardo “Nonostantegrazia”. Mentre fuori Milano era grigia e allegramente frenetica, lo Spazio Marras - grazie alla sapienza dell’allestimento dell’artista floral designer Tonino Serra - diventava un vero bosco incantato e selvaggio dove è facile perdersi. Un bosco-luogo narrativo, che ha visto sfilare creature angeliche ed esseri malvagi, uniti dall’intreccio della storia e dei tessuti e vestiti da preziosi jacquard intarsiati e da streetwear; da abiti gran soirée con ricami e paillettes e da cappotti-stuoia; da giacche dalla preziosa struttura sartoriale impreziosite dall’oro e da intarsi di pizzo e da giacche check da guardiacaccia.
Tutto è narrazione: è nerissimo abisso ed è rosso passione, è crema che attende e colori della foresta. L’omaggio a Grazia Deledda, è reso da Marras con la metafora del bosco - un luogo che è Memoria - e con il meraviglioso universo naturale e soprannaturale della Sardegna. Tutto è nuovo e rivisitato nel bosco-passerella; anche le acconciature “Intreccio di Pensieri” ideate da Davide Diodovich, il make-up smokey eyes “Intreccio di Emozioni” di Maurizio Calabrò e le unghie “Falling in the Wood” di Antonio Sacripante. Tutto racconta, con dettagli curati e carichi di senso, l’intensità, il lato gotico e mediterraneo della visione deleddiana di Marras. Tutto narra dell’oggi e di una vita precedente, come le giacche rimesse a nuovo con damaschi e broccati.
Antonio Marras, dopo tanti viaggi nella memoria, nell’arte, nella Storia, come è arrivato a Grazia Deledda?
«Grazia Deledda è un mito che sempre abbiamo evitato di toccare, anche solo di sfiorare, per pudore. A 150 anni dalla sua nascita, ci è sembrato giusto raccontare una storia che sa di arcaica contemporaneità, di nuragica modernità. Di incontro con il passato e il presente, che guarda al futuro».
In che modo ha voluto tradurre questa sua visone del nostro premio Nobel in abiti?
«Ho cercato, come sempre, di mischiare, di raccontare una storia con una moda quanto più onirica e concreta».
Possiamo dire che l’ossimoro sia sua la cifra?
«È il mio modo di lavorare, di vedere le cose, di mischiarle e di accostarle. Questo è il mio Dna, sono le mie radici».
Le sue creazioni raccontano e ricordano la grande scrittrice attraverso il racconto traslato di un’avventura nella foresta. Come è stato possibile?
«Ho cercato di crescere, di innestare e assemblare tessuti e oggetti tratti dalla Natura, da fogli, rami e fiori. L’ho fatto per raccontare questa donna, che si inoltra in una foresta incantata abitata da strani esseri, che fa diversi incontri. La foresta è animata da presenze inconsuete (i performer) che interagiscono con le donne che si inoltrano in essa, le disturbano, le stuzzicano, le incuriosiscono. Le donne si inoltrano in questa selva con timore e curiosità, un po’ come faceva Dante».
Che cosa le rimane e che cosa si è lasciato dietro rispetto a quando ha iniziato a fare sfilate?
«Mi rimane la paura, come fosse la prima volta. Anzi: la prima volta c’era l’incoscienza di non sapere cosa sarebbe successo. Col tempo è rimasto il timore di non essere mai all’altezza, di non essere adeguato. Fino all’ultimo momento vorrei cambiare quello che ho fatto. Mi sembra tutto già visto e già fatto. È la sensazione che ho quando porto a termine un lavoro, sempre frutto di tanto tempo e di tante persone. Questa è un’autocritica. Un mio modo di vedere, di concepire e di portare aventi le cose. È il mio modo di essere. Mia madre mi chiamava “mai contentu”» .