La Nuova Sardegna

L'intervista

Dante Ferretti: «Dai soldi rubati a papà per andare al cinema ai tre Oscar nella libreria»

di Alessandro Pirina
Dante Ferretti: «Dai soldi rubati a papà per andare al cinema ai tre Oscar nella libreria»

Il re degli scenografi si racconta: «A Fellini dissi no, per Scorsese mollai Los Angeles»

06 marzo 2024
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Definirlo il Dante della scenografia non è un eccesso, e non perché è il suo nome di battesimo. Come il Sommo poeta è il numero uno della letteratura, Dante Ferretti non ha rivali quando si parla di scenografia. Nella sua libreria ci sono i tre Oscar vinti, gli altrettanti portati a casa dalla moglie Francesca Lo Schiavo e i tantissimi altri premi, dai Bafta ai David, che hanno costellato la sua carriera al servizio del cinema, di quello dei giganti. Qual è appunto lui.

Ferretti, da Macerata a Hollywood: quali erano i suoi sogni da bambino?
«Fare il cinema. La prima volta che mio padre mi portò in sala avevo 9 anni e mi sono innamorato del cinema. Ogni notte mi alzavo e prendevo i soldi dalla tasca dei pantaloni di mio padre. Il giorno dopo gli dicevo che andavo a studiare da amici, ma in realtà me ne andavo al cinema. Ai tempi a Macerata c’erano 5 o 6 sale e io andavo a vedere un film dietro l’altro. Tornavo a casa la sera tardi. “Stavo studiando”, mi giustificavo con mio padre. Ma poi agli esami venivo sempre rimandato a ottobre».
 

Come nasce l’amore per la scenografia?
«C’era un amico di mio padre, Umberto Peschi, scultore futurista, a cui dicevo sempre che mi piaceva il cinema. Lui mi fa: “iscriviti all’istituto d’arte e fai lo scenografo”. E io: “e che è?”. Lui: “quello che costruisce tutto ciò che c’è dietro nei film”. Mi parla di un film ambientato nell’antica Roma in cui c’erano tutte le bighe, io vado a vederlo e leggo: scenografia di Hal Pereira. È in quel momento che dico: ecco quello che voglio fare».

Come convinse suo padre?
«Gli dissi che terminato l’istituto d’arte avrei voluto iscrivermi a Roma all’Accademia per fare scenografia. “E che è?”, anche lui. Glielo spiegai, ma restava contrario: “chi manda avanti il nostro mobilificio?”. Alla fine gli strappai la promessa: “devi superare la maturità”. A quel punto dovetti studiare sul serio. Ricordo ancora quando appesero i quadri. Avevo tutti attorno: presi il massimo in quasi tutte le materie, eccetto ginnastica. Arrivò mio padre e gli dissi: ora devi mantenere la promessa».

Sbarca a Roma, ma come riesce ad arrivare al cinema?
«La mattina andavo in Accademia, il pomeriggio a disegnare nello studio di un architetto di Macerata, Aldo Tommassini Barbarossa, che aveva lavorato come scenografo per Blasetti, ma aveva smesso. Un giorno gli propongono due film di Domenico Paolella da fare insieme ad Ancona. Mi fa: “tu che studi scenografia all’Accademia...”. Avevo 17 anni ma dico sì, un po’ per incoscienza».

Quella fu la svolta.
«Ad Ancona mi misero su un tavolino dentro un capannone: facevo schizzi, disegni. Alla fine portai avanti due film in contemporanea. Quando finimmo avevo 18 anni e mezzo. Il produttore disse: “ma guarda cosa è riuscito a fare questo ragazzino”. E mi presentò a Luigi Scaccianoce, ai tempi uno degli scenografi più importanti. Mi prese per “La parmigiana” con Catherine Spaak. Ma lui normalmente faceva due o tre film per volta. E di lì a poco iniziò anche “Il Vangelo secondo Matteo” di Pier Paolo Pasolini. Lui andava e veniva, ogni tanto si avvicinava Pasolini: “scusi Ferretti, dove sta Scaccianoce?”. E io gli dicevo che era uscito per cercare delle cose. Il film l’ho portato avanti fino alla fine. Di fatto “Il vangelo” ha dato il via al mio lavoro».

Con Pasolini nacque un grande sodalizio artistico.
«Ci siamo sempre dati del lei, ma con lui ho fatto tutti i film, fino a Salò».

In quegli anni l’altro grande incontro: Federico Fellini.
«Scaccianoce fece a metà con Danilo Donati, che di solito realizzava solo i costumi, ma Fellini lo volle anche per la scenografia. Lui però non andava molto d’accordo con Scaccianoce. Eravamo sul set del Satyricon. Entra Fellini con tutta la sua corte e chiede di volere fare un ambiente beige. Scaccianoce tira fuori la palette di colori, ma a Fellini non ne va bene uno. Finché io non vedo per terra un pezzettino di cartone. “È per caso questo?”, chiedo. “Questo è quello che voglio”. Fatto sta che a metà film Fellini manda via Scaccianoce. Noi tutti lo seguiamo, ma è lo stesso Scaccianoce a dirmi: “lei deve rimanere, deve portare avanti il film, Donati non sa fare lo scenografo”. E così feci. Fellini mi porta a Ponza dove costruisco navi, barche, faccio tutto. “Grazie Dantino, era quello che volevo”».

Dopo il Satyricon, però, passano anni prima di ritrovarsi con Fellini.
«Tornato da Ponza, arrivo a Roma e un mio amico mi chiama: “lunedì mattina andiamo a mangiare a Fregene”. Mi viene a prendere, ma mi rendo conto di essermi dimenticato il costume da bagno. Entro a casa e squilla il telefono. Era Franco Rossellini: “preparati fra tre ore devi essere in Cappadocia, c’è Pasolini che ti vuole per fare Medea”. La produzione aveva preso un altro scenografo che lui non voleva. E così arrivo in Cappadocia. “Grazie Ferretti. Dobbiamo girare oggi pomeriggio quando tramonta il sole e c’è Maria Callas che arriva su un carro”. “E io che devo fare?”, gli chiesi. “Il carro”, la risposta. Mi fanno vedere un carretto, mi consulto con i costumisti. Piero Tosi non c’è, parlo con la sua assistente Gabriella Pescucci. Gli attrezzisti mi aiutano a fare questo carro e quando Pasolini lo vede: “perfetto”. E la Callas: “quanto è bello”. Insomma, mi metto a lavorare e porto avanti tutto il film. Ci trasferiamo a Cinecittà per gli interni e chi incontro appena arrivato?».

Fellini.
«Già. “Dantino, so che stai facendo Medea con Pasolini. Devi venire a lavorare con me”. E io: “Maestro, grazie ma mi chiami fra 10 anni, magari avrò più esperienza”. Negli anni ci siamo visti tante volte a Cinecittà, lui mi dava del tu, io sempre del lei. Finché un giorno, io facevo “Todo modo” di Elio Petri, lui stava finendo “Casanova”, esce dal teatro da solo e ci ritroviamo sotto un lampione: “ciao Dantino, sono passati 10 anni”. E io: “sono pronto”. E così ho iniziato a lavorare con lui e insieme abbiamo fatto tutti i suoi ultimi sei film».

L’incontro della vita con sua moglie Francesca Lo Schiavo. Nel 1975 in Sardegna.
«A Portobello di Gallura. Io avevo preso casa a Porto Rafael, Elio Petri mi disse: “devi venire da noi, là sono tutti fascisti”. Così compro un terreno e faccio questa casa, per inaugurarla invito un po’ di amici: Petri, Marco Ferreri, Gian Maria Volonté. E Fabrizio De André con la prima moglie Puny, che porta una sua amica, Francesca. Abbiamo scoperto di vivere a Roma a 300 metri di distanza e di avere lo stesso garage. Ma non ci eravamo mai visti. Ci siamo conosciuti, messi insieme, sposati...».

E avete iniziato a lavorare insieme, diventando la coppia più premiata del cinema.
«Lei faceva l’arredatrice d’interni. Un giorno mi dice: “senti Dante, sei sempre fuori, anche per mesi, abbiamo due figli, perché non mi fai lavorare con te?”. La porto sul set di Fellini, “La città delle donne”, la inserisco nella troupe come aiuto arredatrice: ha imparato subito. E insieme siamo arrivati a vincere tre Oscar a testa».

Lo sbarco in America: come arriva a Hollywood?
«Avevo fatto “Il barone di Münchausen”, prima nomination agli Oscar, ma soprattutto ottime critiche: fu definito il più bel film per le scenografie del cinema Usa. Mi chiamarono subito in America per “Isobar” di Roland Emmerich. Mentre ero sul set a Los Angeles ricevo una chiamata di un assistente italiano di Martin Scorsese, che avevo conosciuto su un set di Fellini dove era venuto con Isabella Rossellini. “Dante, devi venire a New York perché Scorsese ti vuole per il suo nuovo film, L’età dell’innocenza”. Io, che anni prima avevo detto no a Scorsese perché già impegnato, quella volta non ebbi dubbi: arrivo subito. Lasciai “Isobar”, che poi non verrà mai fatto. La Mgm mi mise a disposizione un aereo da Los Angeles a New York».

Inizia così il grande sodalizio con Scorsese: nove film, sei nomination, due Oscar.
«Atterrai a New York, Scorsese mi ringraziò e mi diede il copione. “E mo’ che faccio?”, pensai. Non conoscevo New York. Ma mi misi a guardare un sacco di libri di fine Ottocento, feci fare 180 quadri, feci costruire quasi tutto. Portai sul set Gabriella Pescucci, assistente di Piero Tosi, e fummo entrambi nominati agli Oscar. Lei lo prese e io no. Tanto che il New York Times si stupì della mia mancata vittoria, anche perché vinse un film quasi senza scenografia».

L’Oscar arriverà solo alla settima nomination per “The Aviator”, ancora Scorsese. Pensava non lo avrebbe più vinto?
«Non ci volevo andare, ero su un altro set di Scorsese. È stato lui a insistere: “devi venire”. Siamo andati a Los Angeles con il suo aereo. Per la prima volta gli scenografi stavano sul palco dietro le quinte. A un certo punto Halle Berry fa: “the Oscar goes to Dante Ferretti and Francesca Lo Schiavo”. E io: “mamma mia, e mo’?”. Non ci volevamo credere, non sapevamo cosa dire. Francesca l’ha dedicato ai nostri figli, io al cinema italiano».

Di Oscar ne arriveranno altri due per “Sweeney Todd” di Tim Burton e “Hugo Cabret” di Scorsese. Tra lei e sua moglie 6 statuette e 20 nomination.
«E quattro Bafta, cinque David, 12 Nastri. E tantissimi altri».

Domenica c’è la notte degli Oscar. Per chi ha votato?
«Posso dire solo che ho votato per il film italiano. “Io capitano” di Matteo Garrone mi è piaciuto moltissimo».

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