John De Leo: «Elvis è il mio spirito guida e il mio demone più grande»
È uscito “Tomato Peloso”, il nuovo album con i Jazzabilly lovers. La collaborazione con Paolo Fresu: «Tutto nato da quel concerto nel suo festival»
Reduce dal tour dei 25 anni di “Rospo” con i Quintorigo, John De Leo pubblica un nuovo album per Tuk music, “Tomato Peloso”, con la formazione Jazzabilly lovers. Qui De Leo, una delle voci più originali e virtuose del panorama italiano, dà nuova vita a grandi classici di Elvis Presley, Gene Vincent e Stray Cats. Arricchito dalla tromba di Paolo Fresu e dal piano di Rita Marcotulli, l’album è un gioiello che non passerà di certo inosservato tra le uscite del 2025.
Da quanto tempo stava pensando a questo disco?
«È nato da un’idea condivisa con il contrabbassista Stefano Senni, che tra l’altro è anche mio conterraneo, siamo entrambi lughesi, veniamo da una cittadina in provincia di Ravenna nella bassa del mondo. Con Stefano condividiamo gli amori per il jazz, per il rockabilly. Da adolescenti facemmo anche qualche prova... poi sono stato sopraffatto da altre priorità, e dalla pigrizia. Questo disco vede la luce molto tempo dopo».
Chi sono i Jazzabilly lovers?
«Senni ha chiamato due musicisti di cui si fida, Enrico Terragnoli (chitarra, ndr) e Fabio Nobile (batteria). Dal canto mio, ho coinvolto un mio collaboratore storico che pensavo potesse essere determinante: Franco Naddei ossia Francobeat (sound design)».
La presenza che più di tutte attraversa le tracce è Elvis Presley. Per lei e per la sua musica cosa rappresenta?
«Sì, e tra l’altro dà il titolo a un brano che non avrei voluto mettere ma che poi ho inserito, cioè “Elvis Daimon”. Daimon nel senso greco del termine. Che io lo voglia o meno ho accettato che Elvis sia il mio demone e spirito guida. L’ho ascoltato tanto da adolescente, e nella storia musicale è una pedina determinante, non solo per il rock, sebbene ne sia l’incontrastato re. Mi riferisco a un amore viscerale, che non ha riscontro nella grammatica della sua musica: sto passando la vita intera a cercare di liberarmene, razionalmente non dovrebbe piacermi. E invece...».
Nel corso del disco usa almeno cinque microfoni diversi, le piace dare colori diversi alla sua voce?
«Ho sempre considerato la voce come strumento tra gli strumenti e come tale cerco – i miei sono intenti, non ho nessuna presunzione – di essere il più utile possibile alla narrazione musicale complessiva».
Telti, agosto 2021. Nell’ambito del “Time in jazz” lei canta l’Inferno di Dante in una mattina di caldo torrido. Una performance intensa, è in quell’occasione che vi siete avvicinati con Paolo Fresu?
«Nel corso degli anni ci eravamo incrociati in vari contesti prestigiosi. Sì quella volta è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso, sono contento abbia accolto bene l’idea e sia nata questa produzione».
Le illustrazioni dell’album sono sue.
«Qualche decennio fa riuscivo a praticare il disegno con più disinvoltura, poi ho dovuto fare delle scelte. Fino a oggi sono riuscito a far credere di essere un cantante, e non mi posso lamentare. Quando mi hanno chiesto di occuparmi delle illustrazioni, non mi sono fatto pregare troppo. In quei giorni mi mettevo di buona lena dal mattino e in un attimo diventava notte. Mi è sembrato un modo sano per distrarsi dal mondo reale».
E la copertina?
«Tra le infinite castronerie che ho detto in un viaggio di ritorno dal “Blue note” (a Milano) è uscito fuori Tomato peloso, è quella che ha fatto più ridere. Poi si è trattato di dargli una forma».
Blues, rock ’n’ roll e jazz: di queste anime ce n’è una che in lei prevale?
«Spero nessuna, fanno parte di me in modo inequivocabile. Il rock ’n’ roll fa muovere la gamba, con tutto il suo mondo incondivisibile e maschilista. Il blues è quella roba dannata, che poi si è evoluta nel versante jazzistico. Il jazz è la conquista della libertà vera e interessante commistione del pensiero».
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