Le mille vite di Raffaele Pisu: partigiano, attore, conduttore tv e gelataio nella sua Sardegna
Cento anni fa nasceva il grande artista bolognese originario di Guspini: la sua ultima intervista quattro mesi prima di morire
Oggi, 24 maggio 2025, Raffaele Pisu avrebbe compiuto 100 anni. Riproponiamo la sua ultima intervista del 30 marzo 2019, rilasciata alla Nuova Sardegna pochi mesi prima della sua morte, avvenuta il 31 luglio 2019.
Teatro, rivista, radio, televisione, cinema. C’è tutto nella vita artistica a puntate di Raffaele Pisu. O meglio nelle sue vite artistiche. L’attore, classe 1925, è uno dei grandi dello spettacolo italiano. Ma a differenza di tanti altri, lui per due volte è riuscito a riemergere dal dimenticatoio in cui spesso si scivola dopo grandi successi. E ogni volta è ripartito più carico di prima. Il suo lungo curriculum è quanto un normale uomo di spettacolo riuscirebbe a fare in tre carriere. Lui c’è riuscito in una sola. Lunga più di 70 anni e ancora con tante caselle vuote da riempire. Un percorso in cui ha fatto convivere Wanda Osiris e Paolo Sorrentino, passando per il pupazzo Provolino, Claudia Cardinale e il Gabibbo. E ora, alla vigilia dei 94 anni, Pisu si appresta a tornare sul set: a ottobre inizierà a girare tra l’Italia e la Romania “Addio Ceausescu”, diretto dal figlio Antonio e prodotto dalla Genoma Films dell’altro figlio, Paolo Rossi, di cui ha conosciuto l’esistenza solo un paio d’anni fa.
A 90 anni. Pisu, lei è nato a Bologna, vive a Imola, ma il suo cognome rimanda alla Sardegna…
«Certamente. Mio padre era sardo di Guspini. Era un carabiniere che aveva girato parecchio l’Italia e che poi si fermò in Emilia. Era uno di quelli vecchio stampo. Un uomo vero, giusto. Ed è grazie a lui che io mi ritengo sardo. È vero, sono nato a Bologna, ma come i sardi sono uno che se le lega al dito. Il siciliano riesce a perdonare, il sardo no: aspetta la sua rivincita. E poi a Cagliari vive mia figlia Barbara, che fa la capo infermiera».
La sua carriera inizia subito dopo la guerra.
«Io ero un partigiano e nel 1943 fui arrestato dai tedeschi che mi tennero prigioniero per oltre un anno. Tornai a Bologna solo dopo la Liberazione. In un bar che frequentavo un giorno incontrai Sandro Bolchi (futuro regista dei grandi sceneggiati della Rai, da “Il mulino del Po” a “I promessi sposi”, ndr) e insieme decidemmo di fondare un teatro, “La soffitta”. A metterlo su ci aiutò l’allora sindaco di Bologna, Giuseppe Dozza, comunista, che ci diede un milione di lire. E così cominciammo a lavorare. Era un altro mondo...».
In che senso?
«Allora si lavorava per passione, non per i soldi. Anche perché - era il 1948 - ce n’erano molto pochi. Ma c’era molta voglia di fare, di costruire qualcosa di utile. Nulla a che vedere con il grande fratello o con l’isola degli imbecilli. Era un altro mondo per tutti. Non solo per noi gente di spettacolo. Penso anche ai calciatori: ai tempi si giocava per passione, per la propria città, per la propria regione».
Prima dello sbarco in televisione ci furono tanto teatro e tanta radio.
«A teatro ho lavorato con Wanda Osiris, le sorelle Nava. Alla radio prima a Bologna poi a Roma: ricordo che c’era un giovanissimo Corrado. Poi è arrivata la televisione. Cominciai con Nino Manfredi, Gino Bramieri, Paolo Ferrari, Antonella Steni. Oggi sono tutti morti, sono rimasto solo io. Erano i primissimi anni Cinquanta. La tv la si faceva a Milano e Torino. Le paghe erano davvero molto basse. Io guadagnavo 80mila lire al mese. Eppure facevo tutto, dalla rivista alla prosa. In Italia gli artisti venivano pagati pochissimo, a differenza dell’Unione Sovietica...».
La Russia comunista pagava di più?
«Le racconto una cosa curiosa. Nel 1962 andai in Russia a girare “Italiani brava gente” di Giuseppe De Santis. Un giorno mi fermarono per strada a Mosca, era un giornalista che intervistava gli stranieri. Dopo l’intervista mi diedero 100 rubli. “Questi sono per i 10 minuti di tempo che le abbiamo rubato”. Cosa che in Italia non è mai successa. E oggi è anche peggio». Nel 1961 il grande successo con il varietà “L’amico del giaguaro”.
Che tipo di tv era quella dell’epoca?
«Era una televisione in cui c’erano gli autori. Io, Gino Bramieri e Marisa Del Frate provavamo per una settimana, ogni giorno, poi il sabato c’era la prova generale. Oggi gli autori ci sarebbero anche ma non li vogliono pagare. E poi noi ci concentravamo su una trasmissione. Se ne facevamo una in più ci vergognavamo. Oggi ci sono conduttori che ne fanno 800. Così si rischia l’inflazione. Carlo Conti è bravo ma il pericolo è che dopo un anno di show ininterrotti la gente si stanchi. Oggi la tv è come uno spremi limone».
Dei tanti artisti con cui ha lavorato chi ricorda?
«Fernandel, De Sica, Fellini, Monicelli, Mastroianni, Walter Chiari. Sono davvero tantissimi. Quel mondo che oggi non c’è più. Ne ho parlato anche l’altro giorno con il presidente Mattarella, che mi ha accolto al Quirinale molto carinamente. Mi ha anche aiutato a camminare. A lui ho detto: “Presidente, ai miei tempi c’era passione, voglia di costruire”. Oggi nessuno legge più, nessuno va al cinema a vedere i film. Nei quiz in tv si sentono cose disarmanti. Tipo Bolzano in Austria».
Dalla tv al cinema: nel 1962 protagonista di “Italiani brava gente” di De Santis.
«È un film che è stato restaurato da poco. Molto bello. Che però ai tempi non fu apprezzato. Lo buttarono sul mercato ma non ebbe successo. Ci dispiacque molto perché ci avevamo lavorato in Russia per un anno. In America, invece, andò molto bene. Anche il New York Times parlò bene di me. Come sempre: nemo propheta in patria».
La trottola con Corrado e la Mondaini, Vengo anch’io con il pupazzo Provolino, Senza rete di Enzo Trapani. Ma poi, dopo il grande successo, negli anni ’70 scomparve dagli schermi. E finì in Sardegna a fare gelati...
«Fu un momento di grande disgrazia. Campavo con i pochi soldi che mi erano rimasti. A un certo punto decisi di venire in Sardegna. Comprai una Carpigiani, di quelle che fanno i gelati artigianali, e iniziai a fare coni e coppette a Porto San Paolo. In un mese guadagnai un milione di lire».
Finché nel 1989 Antonio Ricci non la chiamò a Striscia la notizia.
«Mi volle a fare coppia con Ezio Greggio. Esperienza molto bella, ci siamo divertiti tanto. Ma era un’altra cosa rispetto alla Striscia di oggi. Allora c’erano le parodie dei politici, prendevamo in giro Andreotti e Craxi. Era uno show diverso, più allegro. Oggi è solo una trasmissione di denuncia».
Cosa guarda lei oggi in tv?
«Il calcio, anche se il mio Bologna non funziona molto. E poi i film di una volta, ma li danno solo alle tre del mattino».
Dopo Striscia un’altra eclissi dal mondo dello spettacolo.
«Mi avevano fatto una diagnosi: hai pochi mesi di vita. Ho venduto tutto, ho preso mia moglie e mio figlio e me ne sono andato ai Caraibi. Per morire al caldo. Ma quando ero lì ho cominciato a stare meglio: la diagnosi era sbagliata. Ma a Santo Domingo sono rimasto nove anni. Fino a quando non ho deciso di tornare a Bologna».
E siamo alla nuova resurrezione artistica.
«Ricordo Raimondo Vianello che mi disse: adesso spargo la voce che sei tornato. Lui sfotteva sempre, e tutti, a partire dalla stessa Sandra. Ma il telefono non squillava».
Nel 2004 arriva la telefonata di Paolo Sorrentino.
«Mi volle incontrare personalmente e mi scelse per “Le conseguenze dell’amore”. Paolo è bravissimo, un grande regista davvero. Appartiene alla schiera dei grandi artisti di una volta. È preparato, legge, studia, capisce».
Poi Vincenzo Salemme, Ricky Tognazzi, ma soprattutto alla vigilia dei 90 anni è arrivato suo figlio Paolo...
«Si è presentato con una lettera della madre in cui c’era scritto che era mio figlio. Lo ho subito riconosciuto e lo amo come se lo conoscessi dalla nascita. E insieme a lui, come produttore, e all’altro mio figlio Antonio con cui ho lavorato tanto a teatro, come regista, sono tornato sul set».
Con “Nobili bugie”.
«Una commedia uscita un anno fa in 75 sale. Un grande successo per un film indipendente. Con me ci sono Claudia Cardinale, Giancarlo Giannini, Ivano Marescotti e Gianni Morandi».
Nel frattempo sta per tornare sul set.
«A ottobre gireremo tra Cesena, Bucarest e Budapest “Addio Ceausescu”, diretto da Antonio e prodotto dalla Genoma Films di Paolo insieme a Dan Burlac, già Palma d’oro a Cannes. La sceneggiatura è già stata venduta a Rai Cinema. Una storia vera che racconta di tre romagnoli nella Romania di Ceausescu».
Altri progetti?
«Costruire una bara a remi e arrivare in Sardegna. Vorrei che le mie ceneri venissero disperse nel mare del Poetto».