Serena Bortone: «Gli anni ’80 ci fecero sognare la libertà. A 13 anni suonai a casa di Simon Le Bon»
La giornalista ospite al Festival dell’Altrove di Guasila presenterà il suo romanzo: «Sono stata fidanzata con un sardo e mi sono innamorata dell’isola»
Alla tv la sua risata, la sua ironia, la sua curiosità ma soprattutto la sua voce libera mancano. In questa stagione il più fortunato è il pubblico di Rai Radio 2 che dal lunedì al venerdì, dalle 12 alle 13.30, la può ascoltare al timone di “Radio 2 Stai Serena” che conduce con Massimo Cervelli. Nel frattempo, Serena Bortone continua a girare l’Italia per presentare il suo romanzo “A te vicino così dolce”, edito da Rizzoli, in cui la giornalista racconta l’adolescenza, una stagione che tutti vivono più o meno allo stesso modo, tra amicizie giurate per tutta la vita, primi amori, delusioni da cui mai ci si riprenderà. Sullo sfondo, anzi molto di più, gli anni Ottanta. Oggi, sabato 25 ottobre, alle 21 Serena Bortone sarà a Guasila, al Festival dell’Altrove, dove presenterà il libro con la giornalista Simonetta Selloni.
Serena, da bambina cosa sognava?
«Ero una bambina talentuosa, molto stimolata. Non giocavo con le bambole. Dicevo: sono bambole, perché devo fare finta siano miei figli? Allora come ora sognavo di essere libera, di divertirmi. Nulla di legato a principi o principesse».
E la Serena degli anni ’80 quali sogni aveva?
«Sognavo George Michael, il bassista degli Spandau. I Duran mi piacevano meno, preferivo gli Spandau con quei vestiti new romantic, quel look quasi settecentesco. Ai tempi sognavamo di incontrarli tutti. A Londra suonai a casa di Simon Le Bon, ci aprì il padre... avevo 13 anni».
Cosa rappresentano per lei gli anni Ottanta?
«È stato un decennio abbastanza irripetibile. Erano finiti gli anni di piombo, sono stati gli anni del disimpegno. Nel 1989 era caduto il muro di Berlino e pensavamo saremmo andati incontro a un mondo di pace, prosperità e benessere. È stato un decennio spensierato, frivolo, felice. Ma anche quello dell’edonismo reaganiano - azzeccatissima invenzione di Roberto D’Agostino -, del consumismo, dell’individualismo. Un decennio in chiaroscuro, insomma».
Citando la canzone di Raf, “Cosa resterà degli anni ’80”?
«Di negativo sicuramente il consumismo, l’omologazione, che oggi con i social è diventata ancora più inquietante, per quanto abbiano anche aspetti positivi, creativi. Come lo sono stati gli anni Ottanta. Pensiamo alla moda, alla tecnologia. Nel bene, invece, la fine del comunismo aveva rappresentato l’idea che non ci fossero più barriere. Una spinta che ha reso il mondo più a portata di tutti, l’Europa ci ha permesso di viaggiare. Purtroppo adesso stanno tornando i settarismi, i muri, l’odio, le stesse frontiere. La ferocia con cui ci si contrappone all’immigrazione è contraria allo spirito degli anni ’80. Come mai avremmo mai immaginato l’invasione russa in Ucraina. Eravamo convinti che la pulsione imperialista non esistesse più, ci sbagliavamo».
Chi c’è nel suo pantheon di quegli anni?
«Per la letteratura Bret Easton Ellis e il suo “American Psycho”. Per la musica tutti i gruppi pop di quegli anni».
E tra i politici?
«Allora la politica non ci interessava, forse questo ci ha consentito di avere uno sguardo più laico sulla politica stessa. Della classe dirigente dell’epoca resta nella memoria, in positivo, il senso della propria missione, il rispetto delle istituzioni e quello reciproco tra avversari. Ho nostalgia di quell’idea che esistesse una politica con la P maiuscola».
All’epoca cos’era la tv per lei?
«Solo Videomusic. Stavo ore attaccata alla tv per aspettare i video. Oppure Sanremo, ma solo per gli ospiti stranieri. Erano gli anni dell’arrivo del vhs, cercavo i film a notte fonda e li registravo. Per me la televisione era uno strumento di conoscenza».
Oggi lei è segretaria dell’Ordine dei giornalisti del Lazio. Come è cambiata la professione rispetto ai suoi inizi?
«È una professione che soffre. I giovani giornalisti sono spesso sottopagati e non si deve dimenticare che la libertà economica è fondamentale per chi scrive. Serve uno sforzo per insegnare anche nelle scuole come si legge una notizia: un ragazzo che cresce disinformato sarà un cittadino non in grado di scegliere. L’informazione non serve ai giornalisti, ma ai cittadini».
L’attentato a Sigfrido Ranucci ci riporta indietro a un’epoca che speravamo fosse stata ormai consegnata alla storia.
«Ci riporta ai tempi bui del nostro Paese. Attentare alla libertà di informazione è attentare alla libertà di tutti i cittadini. Speriamo che si faccia uno sforzo affinché cessino gli attacchi strumentali ai giornalisti. La natura del giornalismo contiene il diritto dovere di critica al potere. La stampa deve essere il watch dog del potere. A qualcuno potrà non piacere ma è l’essenza della vita democratica. Speriamo finiscano querele temerarie e attacchi personali ai giornalisti».
Oggi sarà a Guasila: qual è il suo legame con l’isola?
«La Sardegna è stata per me un grande amore. Sono stata fidanzata a lungo con un sardo. Ho amato la persona che amavo e amavo la Sardegna, il suo ambiente, la sua famiglia, le sue radici. Mi sono innamorata della Sardegna per quella sensazione di libertà che dà. La Sardegna è un luogo in cui si può vivere lo spazio e per me che sono cittadina capirne l’importanza è stato un regalo immenso. A me scatta il mal di Sardegna, perché è una terra che non possiedi. Come tutti i grandi incontri non c’è possesso, ma reciproco rispetto».
I suoi luoghi del cuore?
«L’ho girata abbastanza. Da inviata nelle zone del Sulcis, nella vecchia zona mineraria, con quest’idea della fatica umana e del dolore che non dobbiamo mai dimenticare. E il mare: il Poetto, Villasimius, Carloforte. O Orgosolo con i suoi murales. Ho girato tutti i dolmen, i nuraghi. E amo passeggiare al mare d’inverno, serve a riconnettermi. Il silenzio della Sardegna fa da contraltare alla mia esuberanza».
Viaggiare e scrivere hanno qualcosa in comune?
«La scoperta. Adesso crediamo di conoscere tutto, ma ancora oggi il viaggio di dà la possibilità di perdersi, scoprire, emozionarsi. La differenza è che il viaggio rimane intimo, il romanzo viene consegnato ai lettori, ma sia con il viaggio che con la scrittura e anche con la lettura hai la possibilità di vivere altre vite che altrimenti non potresti vivere».
