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«Vorrei un’isola meno servile capace di fermare la fuga dei giovani»

di Luciano Piras

	Angelica Grivèl Serra
Angelica Grivèl Serra

Angelica Grivèl Serra ha 25 anni e ha pubblicato il suo secondo romanzo. «Mia madre è una figura totemica, è l’episodio scatenante della mia scrittura»

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«In una stanza al secondo piano dell’ala ponente dell’hospice, Piera Raccis stava per morire. Intanto, fuori dalla finestra socchiusa, il cielo fresco di un pomeriggio sfolgorante di fine marzo elargiva promessa di una trionfale trama primaverile». Bastano queste parole, questo incipit rubato al “Prologo” del nuovo romanzo di Angelica Grivèl Serra, “L’anello debole”, per capire qual è la cifra stilistica del linguaggio tipico di questa scrittrice classe 1999. Fuori dal comune, certamente. Lontano dai facili circuiti commerciali. Tanto elegante ed elevato da sembrare il lessico proprio d’altri tempi. Invece. Invece è così fresco e frizzante.

Angelica Grivèl Serra: 25 anni appena, una laurea in Filosofia. Soprattutto: scrittrice... anche se lei non ama una definizione così categorica. Perché?

«Vorrei di me si dicesse non che faccio la scrittrice, ma che sono una scrittrice. È una distinzione sostanziale, solo apparentemente sottile; in realtà, dirimente. Inscatolarmi in una definizione, tuttavia, comporterebbe una percezione di me già risolta, laddove invece io mi percepisco in costante divenire. Sono nata per osservare e in ogni essere umano identifico una storia da raccontare. È una vocazione che non ha fine. Ho ragione di credere che la scrittura sia il mio orizzonte di senso. In quanto tale è certamente paragonabile a un’esigenza vitale, pari al respiro: non è quindi un atto performativo. È un modo d’essere e d’interpretare la realtà. Se la filosofia è indubbiamente un elemento essenziale nella tessitura delle mie conoscenze e anche in quanto lente per tentare una lettura del mondo, scrivere rimane il solo, unico, chiaro modo che io abbia per risolvere le cose non pacificate. Per porre ordine nel magma di rovelli e inquietudini».

Giovanissima ma già padrona di un linguaggio particolarmente ricercato, forbito. Non soltanto nella scrittura, che le è tipica, ma anche nel parlato. Quanto è importante per lei la parola?

«Domanda tonante, penso ora sia da comprendere non quanto la parola sia per me cruciale, bensì quale impatto essa possa avere nel momento in cui l’adopero per stare al mondo. È chiaro che le parole siano tutto, per me: sono sangue, onore, passaporti, specchi, feritoie, nudità, concime, lanciafiamme».

Grivèl Serra è al suo secondo romanzo. Dopo “L’estate della mia rivoluzione” , pubblicato nel 2020 dalla Mondadori, arriva ora in libreria “L’anello debole”, appena uscito per la HarperCollins. Come sono stati questi cinque anni trascorsi tra l’uno e l’altro libro?

«Vivi, intensi, ardui, pieni d’incontri col disincanto».

Nel suo nuovo romanzo la famiglia è al centro della vita che prende forma e consistenza a partire dalla morte. Qual è l’anello debole cui fa riferimento il titolo?

«L’anello debole è un’etichetta, una condanna apparentemente lapidaria affibbiata sin dalle prime pagine al nome di colui che nominalmente è protagonista della mia storia. Ciò che vorrei emergesse tuttavia dal racconto – complesso, palpitante, articolato davvero su più dimensioni – è quanto effettivamente un anello debole possa essere identificato tale nell’istante in cui esso è comunque capace di lacerare le catene nocive. In questa prospettiva, non lo si può intendere, per paradosso, portatore di una qualche forza, dopotutto?».

Ce lo dica lei, può?

«Ebbene, svelo: sì. Io lo credo. È la forza della tenacia. La tempra di un embrione di fenice dal cumulo di ceneri».

Il fattore scatenante della storia che racconta è un testamento... proprio come nella vita reale...

«Perché questo libro è vita reale. Traslazione in romanzo di un universo profondamente vissuto, intimo e vero che prende vita sì da un testamento, ceduto all’oralità, non coronato dalla carta che tutto conserva, e vieppiù dalla valanga che esso comporta. Eppure, nell'inferno, c’è la possibilità di bussare a un Paradiso: e a rendersene ambasciatore è un essere umano luminosissimo, che porta in sé ben novantasette anni di vita, e con questa sua età canuta si svela anello fortissimo...».

Da Cagliari a Ulassai, in Ogliastra: la sua città e le sue origini. Se questa è la sua Sardegna, qual è la Sardegna che vorrebbe?

«Pur se fierissima del mio gene materno, così vero, saldo e tenace, vorrei che la mia terra fosse un po’ più accogliente, nell’accezione di un’autentica schiusa verso le persone e le idee che già vi abitano. Vorrei una Sardegna meno servile, capace di riconoscere e valorizzare concretamente le sue energie virtuose prima di piangerne la mancanza quando esse si vedono costrette alla fuga per trovare spazio altrove. Mi piacerebbe una Sardegna capace di disegnare fortemente la propria identità prima che siano gli altri ad attribuirle titoli».

A proposito di gene materno... lei in diverse occasione ha sempre detto che sua mamma è la primissima lettrice di quanto scrive. È severa? O lascia correre facilmente?

«Mia madre è totemica. Tra le molte cose della vita in cui lei mi è maestra, il suo agirmi da bussola nell’universo letterario sta anche in quella sua capacità aurea di stare nel mezzo tra plauso e briglie. Credo proprio di non sbagliarmi se definisco mia madre l’episodio generativo del mio stesso scrivere. D’altronde, se lei non mi avesse osservata, credendo ciecamente nella promessa in me nascosta sin dal primo battito di vita, non avrei incontrato la scrittura. O la sanguigna, folle, disciplinata passione necessaria per farne prima idea, poi azione, quindi abitudine e, forse, destino».

Una donna determinata e determinante, dunque. Esattamente come è stata Grazia Deledda, scrittrice giovanissima, Premio Nobel, profondamente scrittrice nonostante la società maschilista che ha dovuto combattere. Lei si sente fortunata a essere scrittrice oggi?

«No e sì. No, perché è un tempo crudo, in cui ancora si fatica in modo sconcertante a riconoscere alla cultura e al lavoro intellettuale la compiutezza del loro valore. Sì, perché scrivere è una missione e un privilegio. Esige che io resista».


La scheda Nata a Cagliari nel 1999, Angelica Grivèl Serra è al suo secondo romanzo. Dopo il successo dell’esordio datato 2020, con “L’estate della mia rivoluzione”, edito da Mondadori, esce ora “L’anello debole”, appena pubblicato dalla HarperCollins. Una saga familiare, tanto intensa e sconvolgente, quanto universale. Una storia cruda e poetica allo stesso tempo, nera e luminosa in egual misura. Una storia che prende forma da un grave lutto: la morte di Piera Raccis. È il fratello Claudio che eredita le sue ultime parole, e non solo... Lo scenario è sempre e soltanto la Sardegna, l’isola-mondo. Questo racconta, nella sua nuova prova letteraria, Angelica Grivèl Serra.Premio Navicella Sardegna, nel 2021. Tre anni dopo, nel 2024, a Firenze, la scrittrice ha vinto il anche Premio Spadolini Nuova Antologia.

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