«Covid, un calvario per i lavoratori»
di Antonello Sechi
Dalle mancate visite alle certificazioni che nessuno fa: oltre la malattia c’è anche l’impossibilità di giustificare l’assenza
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OLBIA. Prendersi il Coronavirus non è solo un dramma: è un’esperienza kafkiana, specie se sei un lavoratore dipendente. Ti ammali, fai il tampone, vieni dichiarato positivo, ti chiudi in casa, lo comunichi al telefono al datore di lavoro che, per legge, ti chiede il certificato medico per giustificare la tua assenza. Certificato che vuole anche l’Inps ma nessuno te lo fa. Non l’Ats e l’Igiene pubblica che dovrebbero contattarti e controllarti ma non si presentano in tempi umani perché, immagini, a otto mesi dall’inizio dell’emergenza non sono ancora attrezzati per il carico di lavoro a cui li costringe la pandemia. Né lo fa il medico di famiglia che si rifiuta perché, dice, non spetta a lui. E così tu, malato di Covid, rinchiuso in casa, non solo ti senti abbandonato ma sei anche un assente dal lavoro ingiustificato.
Non può funzionare così, né tutto questo può accadere senza che nessuno ne risponda, denuncia la Cgil gallurese. Che ha preso una decisione forte: ha inviato un esposto alla Procura di Tempio chiedendo che accerti se in quello che sta accadendo a tanti lavoratori galluresi «ci siano eventuali profili d’illiceità penale e, nel caso, individuare i possibili soggetti responsabili al fine di procedere nei loro confronti». E perché non ci sia alcun dubbio sulla volontà di andare fino in fondo sul piano giudiziario, la Cgil chiarisce che l’esposto deve essere considerato una denuncia-querela nel caso i reati che dovessero emergere siano procedibili solo a querela di parte.
La testimonianza. L’esposto alla Procura riporta la storia di una lavoratrice che sottoscrive la denuncia insieme a Luisa De Lorenzo, segretario generale della Cgil gallurese. «Venerdì 25 settembre – si legge – dopo l’esito positivo del tampone sono rimasta a casa in quarantena volontaria secondo quanto previsto dall’Oms e dalle linee guida dell’Inps, ho avvisato la mia azienda e il medico curante inviando copia del risultato del tampone positivo e ho riferito i miei sintomi. Lo stesso venerdì sera sono stata contattata dal medico del Mater Olbia che voleva essere certo della presa visione dell'esito del tampone e mi confermava di aver fatto segnalazione all'Ats. Da allora il silenzio da parte di tutti gli altri enti preposti ad attivare il cosiddetto corridoio sanitario: l'Igiene Pubblica a oggi non mi ha ancora contattato». Inutile chiamare i numeri di telefono ottenuti dal centralino dell’Assl: «Non ha mai risposto nessuno». Inutile anche la mail in cui la donna ha spiegato che senza certificato non può giustificare la sua assenza dal lavoro e che il medico di base si è rifiutato. Il numero giusto da chiamare è arrivato solo quando, disperata, ha chiamato i carabinieri: «Finalmente qualcuno ha risposto chiedendomi i miei dati e dicendo che avrebbe fatto la segnalazione prevista». Ma anche questo non è servito: nessuno ha chiamato «per assicurarsi del mio stato di salute né per prevenire o contenere la malattia né per preservare il diritto a tutelare il mio posto di lavoro».
I medici di famiglia. Quella della certificazione della positività al Covid – che, ricorda la Cgil, è equiparata a un infortunio sul lavoro ed è dunque a carico dell’Inail – è una questione serissima. Il rifiuto dei medici di compilare la certificazione diventa un ostacolo che aggiunge altri problemi a quelli provocati dal virus. Così, spiega l’esposto depositato in Procura, la Cgil ha scritto al presidente dell’Ordine dei medici della provincia di Sassari. «Da quando è iniziata l’emergenza a oggi – si legge – abbiamo rilevato che tanti lavoratori, risultati positivi al Covid-19, stanno riscontrando molte resistenze da parte dei medici di base rispetto alla compilazione della certificazione Inail». Comprendiamo le loro difficoltà, aggiunge la Cgil, ma qui si tratta di tutelare i lavoratori: «Compilare la certificazione Inail a fronte di una diagnosi di doppio tampone positivo effettuata dall’Ats riteniamo sia un dovere per i medici e non un’assunzione di responsabilità rispetto alla certificazione della sussistenza dell’infortunio che compete all’Inail». La Cgil chiede una mano ai medici. Ma chiede anche alla Procura di vederci chiaro: per chi lavora il Covid è un calvario ancora più duro.
Non può funzionare così, né tutto questo può accadere senza che nessuno ne risponda, denuncia la Cgil gallurese. Che ha preso una decisione forte: ha inviato un esposto alla Procura di Tempio chiedendo che accerti se in quello che sta accadendo a tanti lavoratori galluresi «ci siano eventuali profili d’illiceità penale e, nel caso, individuare i possibili soggetti responsabili al fine di procedere nei loro confronti». E perché non ci sia alcun dubbio sulla volontà di andare fino in fondo sul piano giudiziario, la Cgil chiarisce che l’esposto deve essere considerato una denuncia-querela nel caso i reati che dovessero emergere siano procedibili solo a querela di parte.
La testimonianza. L’esposto alla Procura riporta la storia di una lavoratrice che sottoscrive la denuncia insieme a Luisa De Lorenzo, segretario generale della Cgil gallurese. «Venerdì 25 settembre – si legge – dopo l’esito positivo del tampone sono rimasta a casa in quarantena volontaria secondo quanto previsto dall’Oms e dalle linee guida dell’Inps, ho avvisato la mia azienda e il medico curante inviando copia del risultato del tampone positivo e ho riferito i miei sintomi. Lo stesso venerdì sera sono stata contattata dal medico del Mater Olbia che voleva essere certo della presa visione dell'esito del tampone e mi confermava di aver fatto segnalazione all'Ats. Da allora il silenzio da parte di tutti gli altri enti preposti ad attivare il cosiddetto corridoio sanitario: l'Igiene Pubblica a oggi non mi ha ancora contattato». Inutile chiamare i numeri di telefono ottenuti dal centralino dell’Assl: «Non ha mai risposto nessuno». Inutile anche la mail in cui la donna ha spiegato che senza certificato non può giustificare la sua assenza dal lavoro e che il medico di base si è rifiutato. Il numero giusto da chiamare è arrivato solo quando, disperata, ha chiamato i carabinieri: «Finalmente qualcuno ha risposto chiedendomi i miei dati e dicendo che avrebbe fatto la segnalazione prevista». Ma anche questo non è servito: nessuno ha chiamato «per assicurarsi del mio stato di salute né per prevenire o contenere la malattia né per preservare il diritto a tutelare il mio posto di lavoro».
I medici di famiglia. Quella della certificazione della positività al Covid – che, ricorda la Cgil, è equiparata a un infortunio sul lavoro ed è dunque a carico dell’Inail – è una questione serissima. Il rifiuto dei medici di compilare la certificazione diventa un ostacolo che aggiunge altri problemi a quelli provocati dal virus. Così, spiega l’esposto depositato in Procura, la Cgil ha scritto al presidente dell’Ordine dei medici della provincia di Sassari. «Da quando è iniziata l’emergenza a oggi – si legge – abbiamo rilevato che tanti lavoratori, risultati positivi al Covid-19, stanno riscontrando molte resistenze da parte dei medici di base rispetto alla compilazione della certificazione Inail». Comprendiamo le loro difficoltà, aggiunge la Cgil, ma qui si tratta di tutelare i lavoratori: «Compilare la certificazione Inail a fronte di una diagnosi di doppio tampone positivo effettuata dall’Ats riteniamo sia un dovere per i medici e non un’assunzione di responsabilità rispetto alla certificazione della sussistenza dell’infortunio che compete all’Inail». La Cgil chiede una mano ai medici. Ma chiede anche alla Procura di vederci chiaro: per chi lavora il Covid è un calvario ancora più duro.