Troppe attese sui “salvatori della patria”
La caduta di Draghi e del suo governo
Alla fine, nella crisi politica innescata dal partito di Conte e perfezionata dai partiti del centrodestra, ciascuno si è comportato coerentemente con i propri interessi immediati. Purtroppo, quegli interessi fanno sì che la legislatura finisca in maniera traumatica Mentre l’Italia si trova in mezzo a emergenze gravissime. Le motivazioni addotte dai Cinquestelle nel documento dei “nove punti” per il non voto alla fiducia sul decreto Aiuti appaiono largamente pretestuose.
Il governo Draghi era già impegnato sui temi più importanti del documento, inclusi gli aiuti a famiglie e imprese per fronteggiare il caro-energia e il salario minimo. Lo strappo di Conte è stato la mossa di un partito in fortissima difficoltà, tra scissione, conflitti interni, e risultati disastrosi alle amministrative. Dunque, un partito che è stato al governo per l’intera legislatura mette in crisi il governo di unità nazionale nel tentativo di riproporsi agli elettori come anti-sistema. Anche il centrodestra si è comportato secondo i propri incentivi. I partiti di Berlusconi e Salvini hanno tutto l’interesse ad andare presto alle elezioni, visti i sondaggi, il rosatellum, e con un centrosinistra con un “campo largo” in frantumi e tutto da reinventare. E dunque, Berlusconi e Salvini tolgono la fiducia al governo di unità nazionale, addossando (furbescamente) la responsabilità a Conte. Poco prima, nelle stesse ore in cui i partiti politici erano impegnati in frenetici colloqui e assemblee fiume per gestire la crisi, uscivano elaborazioni del Sole 24 Ore, basate su dati Istat, sul futuro demografico dell’Italia. Il futuro fosco di un paese afflitto da una grave crisi demografica e con sempre meno lavoratori.
In Sardegna, le proiezioni sono talmente drammatiche da avere meritato, giustamente, la prima pagina della Nuova Sardegna. Sarebbe facile usare questa giustapposizione per enfatizzare il contrasto tra le bizze della politica e i problemi del paese. Invece, anche un economista riconosce che in politica e in democrazia le tensioni sono non solo inevitabili, ma sono spesso salutari, incluso perché costringono a fare chiarezza, a rendere esplicite le priorità di ciascuna forza politica, a chiarire chi si prende quali responsabilità.
Tutto ciò è avvenuto mercoledì 20 luglio nella sede appropriata, il Parlamento. La brusca fine del governo di unità nazionale ha dei costi per il Paese. Intanto, perché perpetua la percezione secondo cui l’Italia è un paese instabile, imprevedibile, inaffidabile. Ma i costi più tangibili si devono alla interruzione dell’attività governativa su tanti fronti dove una continuazione fino alla fine naturale della legislatura sarebbe stata preferibile. È la consapevolezza di questi costi che ha indotto tanti rappresentanti di enti locali, associazioni e corpi intermedi a firmare appelli affinché i partiti continuassero a sostenere il governo Draghi. Il governo, con la collaborazione dei partiti che fino al 20 luglio lo hanno sostenuto, ha attuato un programma, e il Parlamento ha votato delle leggi. In molti casi, però, vanno ancora approvati i decreti attuativi, senza i quali le riforme restano lettera morta.
C’è preoccupazione anche per il Pnrr. Nel secondo semestre di quest’anno vanno raggiunti 55 obiettivi oppure si perderanno quasi 20 miliardi. Per non parlare della guerra, del caro-energia, degli sforzi per eliminare la nostra dipendenza dal gas russo, dell’inflazione e delle tensioni sui mercati.
Eppure, la fine del governo Draghi potrebbe farci riflettere sulla saggezza del riporre aspettative eccessive su singole persone. Se l’Italia è costantemente in uno stato di emergenza, è in buona parte perché è afflitta da problemi gravi e persistenti. Forse, dovremmo farci qualche domanda su perché il nostro sistema politico-istituzionale sistematicamente produce situazioni che richiedono il ricorso a “salvatori della patria”.