La Nuova Sardegna

Lo specchio del Paese

Il calcio come sintesi del reale

di Massimo Onofri
Il calcio come sintesi del reale

«Lo sport è uno dei mezzi di integrazione più efficaci. Nello spogliatoio e in campo si vive insieme, ci si confronta, si vivono le stesse gioie e le stesse delusioni, si fatica insieme, si viaggia. Non a caso è molto difficile trovare sportivi razzisti»

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Che dire di quanto dichiarato a Andrea Sini il 26 gennaio scorso su queste colonne da Francesco Mbaye, specializzando in Chirurgia, nato a Sassari trentaquattro anni fa da padre senegalese e madre sarda, ma anche grande sportivo e stella indiscussa della pallamano italiana? Queste le sue parole, nate da un eclatante episodio di razzismo allo stadio Friuli di Udine - gli insulti al portiere Mike Maignan - che aveva indotto i giocatori del Milan ad abbandonare il campo per protesta: «Lo sport è uno dei mezzi di integrazione più efficaci. Nello spogliatoio e in campo si vive insieme, ci si confronta, si vivono le stesse gioie e le stesse delusioni, si fatica insieme, si viaggia. Non a caso è molto difficile trovare sportivi razzisti».

I sani valori dello sport: come direbbero gli immancabili lodatori del tempo andato. Capaci di produrre - bisogna dirlo - veri e propri miracoli, come accadde al Termalica BB Football Club, di cui si parlò molto quasi 10 anni fa. Intendo la squadra di Nieciecza, un piccolissimo e isolato paese rurale di appena 750 abitanti che, partendo dall’ultima categoria dilettanti, in 10 anni riuscì ad approdare alla serie A polacca.

Una storia, questa, che ci induce a pensare che il racconto del calcio sia forse, ormai, l’unica forma di epica moderna: come del resto testimoniano i meravigliosi libri dello scrittore argentino Osvaldo Soriano. Basti soltanto citare, per altro, la vicenda di Maradona, ormai entrato definitivamente nella leggenda: poco importa se con sfumature anche nere. Si potrebbe liquidare la questione affermando che gli episodi di razzismo si riscontrano nel calcio con una frequenza che è esattamente la stessa registrabile in qualsiasi altro settore della società. Ma sarebbe una risposta troppo facile, per almeno un motivo di evidenza lapalissiana: il fatto che il calcio non è uno sport qualsiasi, facilmente paragonabile a tutti gli altri, e non solo per la sua capacità di coinvolgere milioni di persone, senza dire degli enormi interessi economici che lo costituiscono.

Il calcio, infatti, è uno sport ad altissima temperatura simbolica: e i simboli - come sapevano benissimo Hitler, Stalin e Mussolini - possono arrivare a determinare profondamente la nostra vita. Cosa che Desmond Morris, che nel 1981 pubblicò il suo celeberrimo La tribù del calcio, aveva capito benissimo. Né trascurerei l’interpretazione che, nello stesso anno, ne dava l’antropologa Ida Magli nel suo Alla scoperta di noi selvaggi: parlando di uno sport il cui immaginario è profondamente maschile (oggi diremmo maschilista, se non sessista), fondato com’è sulla lotta del branco per il possesso di una donna, come la simbologia tutta femminile della porta violata dal gol - sostiene sempre Magli - dimostrerebbe. Il fatto che ci sia un calcio femminile non contraddice questa tesi, anzi: includendo la donna non per i suoi specifici valori, ma in vista della sua maschilizzazione.

Dal canto mio, non ignorerei nemmeno gli aspetti di guerra simbolica (con tutte le gratificazioni o le frustrazioni proiettive del tifoso, come so bene anche io, felice sostenitore della Torres): secondo la visione del filosofo tedesco Carl Schmitt, convinto che il concetto di sovranità di uno Stato - e il rapporto degli Stati tra loro- si fondi esclusivamente sulla pura contrapposizione tra amico e nemico, non certo su valori razionali e democratici, proprio come avviene negli stadi, là dove le antiche inimicizie tra tifoserie o, al contrario, i gemellaggi, non si fondano su niente che non fosse appunto la logica vigente in uno stato di guerra. Elemento che ci dovrebbe far riflettere su un fenomeno ormai compiutamente realizzatosi: quello della calcistizzazione della Politica. È sempre più raro, infatti, ascoltare un politico che argomenti razionalmente. Ciò che conta è ormai solo la casacca: e l’elettore fa sempre più fatica a capire se ci siano davvero differenze tra nero, bianco e rosso.

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