La Nuova Sardegna

Oristano

Abusi sulla figlia dell’ex compagna: sette anni di carcere

di Enrico Carta
Abusi sulla figlia dell’ex compagna: sette anni di carcere

Bosa, le violenze andarono avanti dal 1999 al 2002 Vennero denunciate però solo diverso tempo dopo

08 giugno 2013
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BOSA. Era tutto vero. Per i giudici quelle accuse lanciate da una ragazzina contro l’ex compagno della madre non sono bugie, ma lo specchio fedele di una triste realtà che per quattro anni era stata costretta a vivere nella propria casa. La camera di consiglio, iniziata poco dopo l’una si conclude attorno alle quattro del pomeriggio. Da lì i giudici del collegio presieduto da Modestino Villani – a latere Francesco Mameli e Riccardo Ariu – escono con il dispositivo, nel quale le parole più importanti sono «condanna a sette anni».

È la pena che dovrà scontare un disoccupato di 43 anni, finito sul banco degli imputati diversi anni dopo i fatti contestati. Tutto iniziò infatti nel 1999 per concludersi nel 2003. È trascorso molto tempo, perché solo con la crescita e la maggiore consapevolezza di quel che le era accaduto la ragazzina iniziò a raccontare brandelli di quella storia che l’aveva vista protagonista nella parte della vittima.

In quella casa viveva assieme alla madre separata dal primo marito, a un’altra sorella e al nuovo compagno della mamma. Fu proprio con la sorella che la ragazzina si confidò. Spiegò cos’era accaduto e che gli abusi non erano stati consumati per intero. Cambia poco, se non per la qualificazione della fattispecie di violenza sessuale da contestare all’ex compagno della madre, che nel frattempo viene costretto a lasciare quella casa per poi ritrovarsi subito dopo nel ruolo assai scomodo di imputato.

Queste erano le accuse contestate dal pubblico ministero Andrea Padalino Morichini, che sin dalla scorsa udienza aveva chiesto la condanna a sette anni di carcere. Ieri, gli avvocati Giuseppe Longheu e Francesca Fazio hanno provato a smontare il castello accusatorio, calcando la mano su alcune contraddizioni presenti nella ricostruzione della ragazzina, chiarendo che non poteva essere stato il tempo a trarla in inganno. Certi episodi sarebbero stati interpretati nella maniera sbagliata, perché la bambina di allora non era in grado di discernere un atteggiamento affettuoso da un abuso sessuale.

Gli stessi dubbi che la madre ebbe inizialmente potevano alimentarne altri, ma il comportamento che la piccola teneva nel momento in cui andava a trovare il padre è stato il vero perno del processo.

Durante quelle visite avrebbe sempre espresso la volontà di non tornare a casa dalla madre proprio per la presenza di quella persona che non voleva accanto. Inizialmente si pensò che fosse un atteggiamento di rifiuto verso la mamma, successivamente però iniziarono le ammissioni e il vero motivo venne a galla. Da quel momento, probabilmente, anche la storia del successivo processo era segnata.

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