La Nuova Sardegna

Henri Cartier-Bresson: la fotografia come sintesi delle arti del Novecento

Gianni Olla
Transessuali spagnoli degli anni Trenta (copyright Fondazione H. Cartier-Bresson, agenzie Magnum e Contrasto)
Transessuali spagnoli degli anni Trenta (copyright Fondazione H. Cartier-Bresson, agenzie Magnum e Contrasto)

Cominciò con la pittura e si avvicinò ai surrealisti, poi coltivò il sogno del cinema accanto ai grandi registi

10 gennaio 2012
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Fotogiornalismo: raccontare attraverso le immagini. Invenzione prettamente industriale e mediatica, è collegata intimamente al "farsi spettacolo" dell'informazione. Nella decifrazione della vita quotidiana del Novecento ha contato più del cinema documentario - inquinato dalle varie propagande governative - e, ovviamente, la fama dei fotoreporter "storici" ha creato una vera mitologia, al cui vertice sta il padre-dio, Henry Cartier-Bresson.  Questa introduzione vale come invito ad approfittare del mese scarso che manca alla chiusura della mostra fotografica a lui dedicata ("Cartier-Bresson photographe") organizzata dal museo Man di Nuoro (aperta sino al 29 gennaio). Il titolo evita appunto il termine più noto, fotoreporter, ma introduce anche un interrogativo estetico: "di che cosa parliamo quando parliamo di fotografia?".  Potremmo, ad esempio, ribaltare il concetto di Benjamin sulla "riproducibilità dell'arte", sostenendo che Cartier-Bresson è la riproducibilità del reale che si fa arte. E come tutto il riproducibile - che, fino all'avvento del digitale era comunque anche perizia artigianale e altissima professionalità tecnica, non inferiore al "sapere" dei grandi pittori - si porta appresso un grande eclettismo estetico, o anche un'arte di sintesi, tipica del Novecento.  Cartier-Bresson fu eclettico fin nella sua biografia: appassionato di letteratura e poi di pittura, fu allievo del pittore Jacques-Émile Blanche (famoso per il ritratto fantasmatico di Marcel Proust) per poi avvicinarsi ai surrealisti. Proprio al Man, su uno schermo televisivo, l'anziano fotografo ritrae una giovane di colore. La tela si riempie di suggestioni che vanno da Gaugin a Matisse, peraltro fotografato nel 1944, a Nizza, con una costruzione ambientale ad un tempo pittorica e filmica. Ma già nel 1931, in uno dei suoi primi scatti, alcuni giovani bagnanti africani, in Costa d'Avorio, sono ritratti in controluce come i danzatori del pittore francese.  Già famoso, Cartier-Bresson decide che il cinema è più interessante - o forse più completo? - della fotografia. Offre la sua collaborazione a Buñuel, che lo respinge. Invece Renoir, dopo aver visto alcune sue immagini, lo utilizza come assistente in tre film, girati tra il 1936 e il 1938: "La vie est à nous", opera di propaganda a favore del Fronte popolare, "Une partie de champagne" e "La regola del gioco", il suo capolavoro, in cui il giovane fotografo fece anche qualche posa, nei panni del cuoco del castello in cui si svolge l'intera storia.  Ritorna alla fotografia per ragioni economiche, ma nel frattempo è in Spagna a filmare la guerra civile, e poi, nel 1945, in Francia per il ritorno dei prigionieri dai campi di concentramento tedeschi. L'intreccio cinema/fotografia avrebbe potuto avere un'altra conferma, nel 1958, quando Kubrick lo scritturò come fotografo di scena in "I due volti della vendetta", film da cui poi si ritirò.  Che cosa è rimasto di questo eclettismo nei suoi maggiori capolavori? Molto o, per esagerare, buona parte del senso ultimo della sua arte. Come altri grandi fotografi, anche Cartier-Bresson riusciva ad essere nel posto giusto al momento giusto. I reportage sulla fine della guerra civile in Cina, nel 1949, e sui funerali di Gandhi, in India, lasciano a bocca aperta per la sensazione di essere lì, in mezzo alla folla, o di far parte del caos che segna la fine del regime di Chiang Kai-shek. Ma le immagini che più colpiscono sono poi quelle delle donne indiane, statuarie come madonne quattrocentesche, però riprese di spalle, con i loro sari, mentre osservano la pianura sottostante. Oppure il vecchio eunuco che simbolizza il passato della Cina, ancora presente, quando Mao prende il potere.  E ancora, i gitanti sulla Senna e sulla Marna, fotografati in diverse epoche, sono la sintesi tra la pittura del Renoir padre e il cinema del figlio: gli eventi quotidiani, extra storici, trasfigurati in vere e proprie messe in scena della "realtà" che s'impongono all'autore.  Persino nella piccola appendice sarda nello spazio Glo, poco distante dal Man (appena prorogata sino al 5 febbraio: avvertenza, andrebbe vista prima e non dopo l'esposizione principale), c'è uno scatto, ripreso dall'alto nell'atrio della chiesa barocca di San Michele a Cagliari, che potrebbe far parte di una sequenza filmica: il fotografo ha atteso l'incrocio virtuale tra l'osservatrice inconsapevole - una mendicante - e il militare che esce alla luce.  Invece la pittura ritorna, come richiamo estetico, nelle foto di paesaggio, che oscillano tra i richiami impressionisti e il senso di mappatura del paesaggio che proviene dalle grandi stampe giapponesi.  Infine, il mistero di molte foto - come il reportage ad Alicante e gli scatti nella provincia sovietica - sta forse nella coscienza del limite dell'immagine: il tempo si ferma con uno scatto ma la vita fugge via dalla pellicola.  Per contrasto, certe fotografie valgono più di mille parole: non solo il riconoscimento della "kapo" da parte di una prigioniera, nel 1945, sembra già anticipare il tema "harendiano" della banalità del male nazista, ma la scimmia imprigionata in un congegno elettronico che, presumibilmente, serve a monitorare le sue funzioni psichiche e biologiche, potrebbe stare in "2001, Odissea nello spazio". Stanley Kubrick l'avrà certo apprezzata.
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