La Nuova Sardegna

Sos da Ozieri: «Un lavoro, così restiamo»

di Pier Giorgio Pinna
Sos da Ozieri: «Un lavoro, così restiamo»

Disperato appello delle famiglie di rifugiati africani scappati dalla Libia, in un anno e mezzo sono nati quattro bambini

17 ottobre 2012
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INVIATO A OZIERI. I bambini si guardano attorno con gli occhi sgranati e sorridono, sorridono sempre. Gli adulti, mamme e papà che fanno i genitori a tempo pieno, li osservano giocare nel camerone comune e, in un italiano stentato, dicono con amarezza: «Noi e loro qui stiamo bene, vogliamo restare, ma con un lavoro: dateci una speranza». Congo, Mali e Nigeria sono le loro terre. Ma se ci tornassero rischierebbero la vita. Sono scappati da persecuzioni, lotte tra clan, guerre civili, spietate vendette. Prima sono andati a lavorare in Libia. Poi, quando Tripoli è diventata invivibile per le battaglie tra Gheddafi e i suoi oppositori, sono saliti sui barconi della speranza. Viaggi infernali verso Lampedusa. Molti compagni non ce l’hanno fatta. Loro sono stati fortunati, sebbene certe esperienze lascino il segno: «Ho salvato mia moglie che stava annegando vicino agli scogli», racconta uno degli immigrati. Nella primavera 2011, lo sbarco da un aereo a Elmas, una sosta di pochi giorni a Cagliari, alla fine il trasferimento a Ozieri. Ma adesso, dopo un anno e mezzo, la minaccia incombe di nuovo: se non riusciranno a trovare un’occupazione, saranno espulsi nonostante lo status di profughi. Rischiano così di ripiombare in un tremendo incubo.

Alcuni rifugiati non vogliono che si scriva il loro nome: temeno ancora rappresaglie, non da parte dei libici ma dai paesi d’origine. Delle cinque famiglie – cristiane, solo una musulmana – due vivono in abitazioni private prese in affitto dalla coop che gestisce l’accoglienza per conto della Caritas. Le altre sono ospitate nell’ex convento della Madonna delle Grazie, vicino all’ospedale, nel cuore del vecchio centro. C’è chi, come un elettricista quarantenne della Repubblica democratica del Congo, spiega di aver trascorso parecchi mesi alla ricerca di un’occupazione, andando anche a Sassari e Cagliari: tutto inutile. «Il nostro è stato un viaggio molto brutto, alla fine non avevamo più acqua da bere: sul barcone sono morti in nove», aggiunge con un lampo di tristezza negli occhi. «Grazie a Dio qui l’assistenza è buona, la gente di Ozieri accogliente, per sopravvivere abbiamo bisogno solo di una casa e di un lavoro». Con lui, in una delle stanze dell’ex convento, abitano la moglie e la figlioletta, che frequenta la scuola materna così come altri piccoli ospiti. Sono già quattro i bimbi nati in Sardegna. E i più grandi sono quelli fra tutti che hanno appreso meglio la nuova lingua. I loro genitori sono manovali, muratori, elettrotecnici, parrucchiere. Hanno cognomi che evocano paesi lontani. Ma ai neonati hanno voluto dare nomi italiani, come Luca o Anna. «Chiediamo un futuro per loro», dicono padri e madri indicandoli, non smettendo di coccolarli. «Ai sardi e a tutti gli italiani diciamo col cuore: ci avete aiutato quando siamo arrivati, continuate a farlo adesso», aggiungono, parlando metà in inglese e metà in francese.Nell’ex convento gli ambienti sono dignitosi, ospitali: sei le stanze da letto, tre i bagni. I cooperanti organizzano corsi d’italiano. Aiutano i rifugiati a superare ogni difficoltà pratica. Si capisce che da queste parti nessuno specula sui fondi dell’assistenza, come si è scoperto altrove sulla penisola. Gli immigrati cucinano da soli, si autogestiscono. Cercano, tra non pochi ostacoli, di superare i problemi che li dividono, soprattutto in una convivenza forzata. Ma ora ai profughi – che in parte hanno ottenuto asilo politico, in parte stanno per otternerlo o hanno avuto una protezione sussidiaria – non resta che sperare in un colpo di fortuna. Come dicono loro stessi, riuniti per lanciare un appello nel camerone dell’ex convento: «Vogliamo vivere, non ci abbandonate adesso». (ha collaborato Barbara Mastino)

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