La Nuova Sardegna

«Così il pentito Varacalli ha distrutto la mia vita»

Mauro Lissia
«Così il pentito Varacalli ha distrutto la mia vita»

Francesco Baldussu, incastrato dal collaboratore di giustizia, scrive a Mattarella In galera da innocente per il delitto Corona a Serdiana, chiede un risarcimento

17 gennaio 2016
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CAGLIARI. «La vita mi si è rovesciata addosso il 24 febbraio 2009, quel giorno nel mio ovile di Ghineu, vicino a Serdiana e Dolianova, a pochi chilometri da Cagliari, hanno ammazzato il mio compagno di lavoro Alberto Corona, più giovane di me di un anno»: comincia così la lettera che Francesco Baldussu, ventisei anni, ha inviato al presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Quasi due anni in carcere da innocente, accusato di un omicidio commesso dal pentito di n’drangheta Rocco Varacalli, assolto definitivamente dalla Corte d’Appello di Cagliari, il giovane pastore di Dolianova non ha ricevuto neppure il risarcimento che lo Stato garantisce a chi è stato detenuto ingiustamente. Per lui si è mosso l’avvocato Patrizio Rovelli che l’ha difeso nei due processi e nei giorni scorsi anche l’ex consigliere del Csm e parlamentare radicale Mauro Mellini. Ma di quanto gli spetta, neppure l’ombra. Mentre Varacalli, collaboratore di giustizia e per un mese e mezzo investigatore al servizio della Procura per volontà del pm Sandro Pili, è libero malgrado la condanna a 24 anni e mezzo di carcere, l’ultima di una lunga serie.

La vita distrutta. «Hanno distrutto la mia vita e quella della mia famiglia – scrive Francesco – ma era tutto falso». Falso perché all’origine dell’indagine c’era Varacalli: «Era coccolato – ricorda amaramente il giovane allevatore – con i soldi di tutti i cittadini onesti gli pagavano la casa, la luce e il telefono e lui nel frattempo rubava, uccideva, violentava minorenni così come hanno accertato sentenze definitive». Ma non è tutto: «Varacalli calunniava me e mio padre, dicendo che eravamo stati noi a uccidere Alberto Corona, seminava prove false contro di noi». Il ricordo del carcere: «Ho visto mio padre consumarsi per il dolore di vedere il figlio che non riusciva più neanche a parlare, perché l’ingiustizia, signor Presidente, ammutolisce. Sei assillato dal pensiero che tutti ingiustamente ti considerino colpevole. Muori di vergogna e di paura, sei solo, non dormi più».

Nessun risarcimento. Il 20 dicembre 2011 è stato il giorno della verità: «Sono stato assolto, ma il pm ha appellato, si è fatto anche applicare in Procura generale e ha continuato imperterrito a chiedere la mia condanna. Me la solo cavata anche al secondo grado, un miracolo». Testimoni al processo contro Varacalli, il vero assassino, Francesco Baldussu e il padre non hanno potuto costituirsi parte civile per chiedere un risarcimento: «Impossibile – scrive Francesco – perché malgrado le sentenze dicano che Varacalli ha costruito prove false contro di noi nessuno gli ha contestato il reato di calunnia. E questa è la più grande ingiustizia». La lettera prosegue ricordando quanto è avvenuto dopo: «Varacalli è stato condannato, ho chiesto il risarcimento per l’ingiusta detenzione ma la Corte d’Appello non ha preso ancora alcuna decisione. E dall’assoluzione sono passati tre anni e qualche mese».

Le gioie dopo l’incubo. Malgrado tutto Francesco Baldussu trova un segno positivo nella sua vicenda terribile: «Si potrebbe dire, signor Presidente, che io e mio padre siamo vivi e liberi per miracolo, ad altri è andata peggio. Oggi possiamo anche dire di aver dato un contributo a che intorno a noi la gente possa pensare che un po’ di giustizia esiste ed io nel frattempo ho anche vissuto la grande gioia di essere diventato padre. Ho voluto dare a mio figlio, che oggi ha poco più di un anno, il nome di mio padre che nel momento dello sconforto ha vegliato su di me come un angelo». Amara la chiusura: «La disperazione vissuta però rimane, l’umiliazione rimane, lo sconcerto per il fatto che non si è potuto sapere chi aveva aiutato Varacalli a disseminare prove false contro di noi rimane grandissimo».

Uniti nell’ingiustizia. Alla fine l’appello: «Ho pensato di scriverle oggi, Presidente, perché l’avvocato Rovelli mi ha raccontato che anche lei ha subìto una grave ingiustizia nella vita, l’omicidio terribile di suo fratello Piersanti, un uomo giusto che con la sua azione politica contrastava il potere mafioso. La prego, Presidente, anche in memoria di suo fratello, combatta con tutte le forze e i poteri che ha contro l’ingiustizia. Ci aiuti a credere nella giustizia».

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