La Nuova Sardegna

Beppe Pisanu: «No ai ministri di polizia il sovranismo fa paura»

di Alessandro Pirina
Beppe Pisanu: «No ai ministri di polizia il sovranismo fa paura»

L’ex senatore critica Salvini: agisce più da capo leghista che da titolare degli Interni Sulla Sardegna: l’insularità in Costituzione, serve un’iniziativa forte in Parlamento

19 agosto 2018
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INVIATO AD ALGHERO. Nella Prima repubblica è stato il capo della segreteria di Zaccagnini, anche durante i giorni drammatici del sequestro Moro. Nella Seconda ha guidato il Viminale con Berlusconi a Palazzo Chigi. Nella Terza ha preferito farsi da parte, ma senza perdere di vista quanto accade nella vita politica italiana. Beppe Pisanu, quasi 40 anni di fila in Parlamento, rompe il silenzio che ormai dura da diversi anni. Lo fa in occasione del suo ritorno in pianta stabile a Sassari. «In realtà io non mi sono mai allontanato, la mia residenza è sempre stata qui e anche il mio collegio di elezione. Ma stavo perlopiù a Roma, avendo fatto il parlamentare per 20 anni nella Prima repubblica e per 19 nella Seconda».

Senatore, meglio la Prima o la Seconda?

«Sicuramente il periodo che va dal 1975 al 1980 è stato il più ricco e il più doloroso della mia esperienza politica. Ho avuto la fortuna di fare politica con uomini come Moro e Zaccagnini nella Dc e con un Parlamento che aveva ancora il meglio della Prima repubblica tra le sue fila. Penso a Pajetta, Berlinguer, Malagodi. Grandi personalità che avevano una straordinaria attenzione per noi giovani parlamentari. Erano allo stesso tempo maestri e sostenitori e avevano una straordinaria attitudine a guardare al futuro, seppure da posizioni diverse».

Molte di quelle personalità lei le ha incontrate a Sassari da giovanissimo.

«Io ho iniziato la mia attività con i Giovani turchi. Sassari era una città molto vivace culturalmente e politicamente, soprattutto aperta al confronto. Penso a “Ichnusa” che sotto la guida di Antonio Pigliaru metteva a discutere Manlio Brigaglia, Luigi Berlinguer, me e tanti altri cattolici. Penso ai venerdì della Fuci, e ad amministratori comunali estremamente attenti non solo ai problemi cittadini ma anche dotati di orizzonti più ampi che andavano oltre il territorio. A uomini politici come Segni, a giovani parlamentari come Cossiga, a deputati come Berlinguer. Sassari esprimeva una classe dirigente regionale di eccellente livello e valore anche a livello nazionale. Cito per tutti Paolo Dettori, il miglior presidente della storia regionale sarda. Ai tempi Sassari aveva leader che esaltavano la sua attitudine, la sua voglia di crescere».

E oggi?

«Esattamente 17 anni fa, in occasione della inaugurazione dell’anno accademico, lanciai un’esortazione: Sassari svegliati. Ricordo che anche la Nuova aprì un dibattito su queste mie parole. Io avvertivo che la città stava perdendo terreno in Sardegna non solo rispetto a Cagliari, ma anche a Olbia, Nuoro. E quando una città perde non è per una causa sola, ma è perché contemporaneamente vengono meno le condizioni economiche, sociali, culturali e politiche. Da allora non è cambiato molto...».

Di chi è la colpa?

«Io non andrei a cercare responsabili, perché lo siamo tutti: società e istituzioni. Personalmente cercai di fare qualcosa. Nacquero allora i progetti per la nuova questura, la caserma della guardia di finanza, il carcere di Bancali, la cittadella giudiziaria, ma non è bastato per fare crescere la città. Occorrono una società civile più attiva e più vogliosa di sviluppo e istituzioni capaci di assecondarla».

Cos’è stato per lei Cossiga?

«È stato sicuramente il leader della rivoluzione dei Giovani turchi che impresse dal ’56 in poi una svolta decisiva alla vita politica sarda portando alla ribalta una classe dirigente capace di misurarsi seriamente con quel groviglio di problemi storici, culturali, economici e sociali che nel loro insieme formavano la questione sarda».

Una questione ancora oggi aperta.

«I problemi ci sono ancora tutti e si riassumono nell’insularità, la quale è uno svantaggio naturale che lo Stato ha il dovere di colmare con adeguati provvedimenti fiscali e tariffari. Cosa che non è stata mai fatta».

È favorevole alla introduzione del principio di insularità nella Costituzione?

«Credo di dovere rivendicare il copyright di questa battaglia. Ne ho parlato per primo una ventina di anni fa, quando il presidente del Consiglio regionale era Gianmario Selis. Era una riunione di parlamentari e consiglieri regionali e io proposi la costituzionalizzazione dell’insularità. Qualche anno dopo provai anche a mettere insieme un gruppo di sardi e siciliani: era l’unico modo per avere una forza parlamentare capace di inserire all’ordine del giorno un tema di quella portata, ma i siciliani erano abbagliati dall’idea del ponte sullo stretto di Messina. Ora spero ci ripensino. Anche perché se non si crea un blocco parlamentare forte l’iniziativa non va avanti. I parlamentari sardi sono troppo pochi».

Dopo due sassaresi al Quirinale ha mai pensato di poter essere il terzo?

«No, ma altri ne hanno parlato. Io comunque non mi sono mai lasciato suggestionare dalla cosa. La presidenza della Repubblica è una carica che non bisogna cercare in alcun modo, ma se ti chiamano devi accettare».

Oggi al Quirinale c’è Sergio Mattarella.

«Ero amico del fratello Piersanti, ucciso dalla mafia, e sono anche amico suo. Credo di conoscerlo bene e sono certo che sarà un custode prudente ma fermo e severo dei valori e dei principi costituzionali».

Nel 2012 lasciò Forza Italia per Scelta civica. Perché il progetto di Monti è fallito?

«Io avevo visto la possibilità di dare vita finalmente a un grande partito liberale di massa di forte ispirazione europeista che Forza Italia aveva solo vagheggiato. Ma Monti aveva messo insieme personalità le più disparate, prelevate dalla società civile ma prive di riferimenti sociali ed esperienza politica adeguati».

Ha più sentito Berlusconi?

«No, abbiamo mantenuto buoni rapporti ma senza nessuna frequentazione politica».

Cosa ha votato il 4 marzo?

«Mi lasci appellare alla segretezza del voto».

Che giudizio dà del governo M5s-Lega?

«Non ho le idee molto chiare. Moro mi ha insegnato a tenere gli occhi aperti sulla realtà e ad ascoltare le voci che si alzano dalla società civile, prestando attenzione alle cose nuove che nascono senza indugiare troppo sulle vecchie che muoiono. Da questa posizione io colgo segnali positivi, come per esempio l’insistenza sulla moralizzazione della vita pubblica, l’attenzione sull’ambiente e sui punti più controversi come il reddito di cittadinanza. Ma vedo anche atteggiamenti preoccupanti specialmente in ordine a questioni decisive come la lotta alle diseguaglianze, la costruzione europea, l’immigrazione. Insomma, vedo una positiva spinta utopica non sostenuta però da una adeguata capacità di analisi culturale e di proposta politica. E contemporaneamente vedo un pericoloso riflusso verso istanze come il sovranismo e il nazionalismo che in Europa hanno già prodotto due guerre mondiali. Cercare di applicare vecchie soluzioni a nuovi problemi è un segno di allarmante inadeguatezza complessiva».

Da ex titolare del Viminale che idea si è fatto di Salvini?

«Non è elegante da ex ministro giudicare altri ministri, ma credo che in questo caso le esigenze del leader politico prevalgano sulla vocazione propria del ministro dell’Interno, che non è un ministro di polizia, ma un ministro di garanzia dei diritti di libertà e di cittadinanza. L’aspetto che più mi preoccupa è l’approccio al tema dell’immigrazione. Questo è il più grande problema sociale del nostro secolo che va affrontato e risolto a livello internazionale con il coinvolgimento dei governi dei paesi di origine, transito e arrivo dei flussi migratori. Pertanto, la competenza specifica dovrebbe essere affidata ai ministri degli Esteri e degli Affari sociali. Al ministro dell’Interno dovrebbe rimanere l’aspetto legato alla sicurezza, all’ordine pubblico e ai diritti di cittadinanza».

Di fronte alla tragedia di Genova il governo ha avuto il giusto atteggiamento?

«Tragedie come questa vanno sempre valutate non a cuore caldo ma a mente fredda. Non mi pare che almeno fino ad oggi le risposte politiche siano state all’altezza dei fatti».

Se fosse ancora attivo in politica quali sarebbero le sue battaglie?

«Cercherei grandi temi unificanti. Primo tra tutti gli Stati uniti d’Europa. Poi la lotta alle diseguaglianze sociali e territoriali. E la ridefinizione del ruolo dello Stato nell’economia, tenendo ben presente la lezione di Keynes».

C’è qualche politico che oggi apprezza?

«Nel nuovo governo non saprei, bisogna attenderli alla prova dei fatti. Nel precedente c’erano diverse personalità che si sono dimostrate all’altezza dei loro compiti. Ma più che fare affidamento su di loro cercherei di stimolare personalità della società civile, della ricerca scientifica, della cultura, del volontariato. Lì ci sono energie ed entusiasmi a cui bisogna offrire occasioni e strumenti per esprimersi. E poi continuo a confidare negli stimoli che possono venire dall’unico leader mondiale che oggi l’Italia ospita: Papa Francesco».

A febbraio la Sardegna torna al voto. Che elezioni saranno?

«Temo che saranno dominate dai due leader nazionali, Di Maio e Salvini, completamente estranei alla Sardegna e ai temi essenziali della questione sarda. Temo una campagna elettorale dominata dalla propaganda e rivolta all’obiettivo successivo delle elezioni europee».

Di cosa avrebbe bisogno oggi la Sardegna?

«A 70 anni dall’approvazione dello Statuto si dovrebbe fare un bilancio storico della nostra autonomia e su questa base individuare la direzione di marcia per il futuro».

Che pensa di Pigliaru?

«Il mio giudizio è positivo, tanto più che ha dovuto convivere con una maggioranza disorientata e divisa».

C’è qualche errore che non rifarebbe?

«Ci vorrebbe un’altra intervista per elencarli tutti, ma ciononostante ho la coscienza tranquilla».

Politicamente oggi come si definisce?

«Io sono sempre democristiano e soprattutto moroteo. Ho aderito al gruppo degli amici di Moro non appena si è creato. E moroteo morirò».

Sono passati 40 anni dall’omicidio di Aldo Moro: sarà mai fatta piena luce?

«Come tutti i grandi delitti politici penso che anche il delitto Moro almeno in parte resterà avvolto nel mistero. Io conosco molte carte, ho letto parecchio della sterminata pubblicistica sull’argomento e ho i miei ricordi personali e le mie sensazioni. Tuttavia mi rimangono tanti, troppi interrogativi senza risposta».

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