La Nuova Sardegna

Nicoletta l’infermiera perfetta, dal brefotrofio alla corsia

di Luigi Soriga
Nicoletta l’infermiera perfetta, dal brefotrofio alla corsia

Sassari, da bambina l’esperienza che ha forgiato il carattere. Poi una vita per gli altri. Ha raccontato la sua storia nel libro autobiografico “La ragazza del Rifugio”

05 novembre 2018
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SASSARI. Quando ha bussato alla porta del Rifugio Bambin Gesù, in viale Mameli, aveva poco più di tre anni. Salutò la mamma come se dovesse rivederla un’ora dopo e sentì la sua spensieratezza chiudersi alle spalle a doppia mandata, assieme al portone. La mano di una suora strinse forte la sua, e la sospinse verso un’esistenza diversa, dove si impara a crescere in fretta e l’anima si fodera di una scorza resistente agli urti della vita.

Adesso che sono passati quasi settant’anni, Nicoletta Sanna guarda quel periodo con un’altra lucidità e consapevolezza. Nella memoria trasuda ancora quel retrogusto di rabbia per tutto ciò che ha dovuto passare, ma c’è anche della gratitudine: «Se ho raggiunto tanti traguardi, se sono questa, lo devo anche all’esperienza del Rifugio».

Ci finivano le bimbe povere che i genitori non riuscivano ad accudire. «La giornata iniziava alle 6 del mattino. Ci alzavamo con gli occhi cisposi, dovevamo aprirli con le dita. Dormivamo in grosse camerate senza riscaldamento: sento ancora nelle ossa il freddo delle lenzuola umide che non si scaldavano mai. Eravamo tutte malaticce, io presi l’epatite. Alle 6,30 andavamo alla messa, e dopo un’ora finalmente potevamo fare colazione, sempre la stessa: latte in polvere diluito con acqua macchiato con un caffè schifoso nel quale inzuppavamo il pane duro. Riuscivamo a buttare giù tutto solo per i morsi della fame».

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Sono privazioni che dovrebbero rigare l’infanzia, ma invece inspessiscono la corteccia protettiva. «Quando le suore ci portavano fuori la domenica, per i funerali delle persone ricche, noi non alzavamo mai lo sguardo da terra e raccoglievamo le gomme che gli altri avevano prima masticato e poi sputato. Ce le passavamo di bocca in bocca, in modo che tutte potessero provare l’emozioni di fare le bolle».

Le educatrici non erano capaci di alcuna empatia e le punizioni corporali e le umiliazioni erano all’ordine del giorno: «Suor Giuseppina ci picchiava col cinturino in cuoio del portachiavi che reggeva l’effige della Madonna. E il paradosso di colpire delle bambine con l’immagine della Vergine non la toccava minimamente. Chi bagnava il letto era costretta a tenere sulla testa il lenzuolo sporco di pipì per ore, davanti a tutte. L’igiene personale per le suore era un optional: potevamo fare il bagno ogni 15 giorni e cambiavamo la biancheria una volta a settimana. Ci tagliavano i capelli con una scodella, e contro i pidocchi c’era un telo imbevuto di benzina da tenere avvolto per un giorno». Tutto, lì dentro, puzzava di freddo e miseria. Erano animaletti indifesi che pian piano imparavano ad affilare gli artigli e a sopravvivere grazie al sostegno del branco. «Quelle amicizie e quei legami te li porti dietro per sempre. Giocavamo con le carte fatte da noi, ci sfidavamo a palla prigioniera, con la corda, con l’hula hoop di fil di ferro. Eravamo felici con poco». Poi imparavano a cucire e a ricamare. «Io ero molto brava. Una volta vidi appese nello stenditoio una fila di mutandoni. Erano quelle dei preti. E notai che tutte erano scucite sul davanti. Da brava sarta presi ago e filo e rammendai quelle aperture. Non sapevamo nulla del sesso, nemmeno l’abc».

Poi poco prima che Nicoletta lasciasse il Rifugio, a 16 anni e mezzo, le cose cambiarono radicalmente. «Arrivò una suora che adorava le bambine. Era comprensiva, affettuosa, e impose un sistema di educazione più amorevole». Ma quella scuola di vita ha regalato alle ragazze una marcia in più. Dopo la fame, il freddo, i pidocchi, le botte e un turbante di benzina in testa, cosa potrebbe far ancora paura? «Abbiamo più grinta, siamo determinate, non ci perdiamo in un bicchiere d’acqua, abbiamo imparato l’arte di arrangiarsi, siamo solidali con gli altri e altruiste. Quell’infanzia non ci ha reso ciniche, anzi siamo sognatrici, perseguiamo con tenacia i progetti, sappiamo tenerci stretti gli affetti e sappiamo essere grati alla vita ogni qualvolta ci gratifica». La vocazione professionale, date queste premesse, non poteva che essere quella della crocerossina. Il tirocinio, a diciotto anni, lo svolse al Policlinico Umberto I di Roma, reparto di Neonatologia, quando ancora la mortalità infantile era altissima e si utilizzava ancora la stessa siringa per due pazienti.

Nel frattempo la “grande Bellezza” della capitale scrostava le scorie di un’esistenza sino a quel momento troppo claustrofobica: «Avevo voglio di divertirmi, adoravo il rock and roll, mi truccavo come mina, con la parrucca bionda e gli occhi bistrati. Avevo molti corteggiatori».

Una volta ottenuto il diploma di infermiera professionale, il suo soprannome era “Nicoletta, infermiera perfetta”, arriva anche il momento di ritornare a Sassari. «Fui assunta all’Ospedale Santissima Annunziata, dove lavorai per tanti anni, sino alla pensione. Ma faccio ancora prelievi di sangue e trasfusioni a domicilio assistendo i malati oncologici». Si è sposata, ha avuto figli, stando attenta a ricoprirli di quelle premure che lei non ha mai avuto. Poi la gioia dei nipoti. Infine ha divorziato e ha ricominciato un’altra vita pensando un po’ più a se stessa e alle passioni mai realizzate. Ha sempre pensato che la sua storia avesse una densità che potesse trasformarsi in inchiostro. E infatti Nicoletta Sanna ha scritto un libro autobiografico intitolato “La ragazza del Rifugio”. Ha anche rincontrato le sue compagne, e dopo mezzo secolo si sono ritrovate in cento: «È stato straordinario scoprire come quegli anni ci avevano forgiato nel profondo. Il passato di privazioni non ci ha ostacolato. Avevamo fame di giustizia e di sogni, e una volta fuori dal Rifugio, tutte abbiamo ricominciato a vivere».

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