La Nuova Sardegna

Un racconto dal pronto soccorso di Nuoro: «Da un paziente all’altro tra barelle rotte e un bagno per tutti»

Il pronto soccorso dell'ospedale San Francesco a Nuoro
Il pronto soccorso dell'ospedale San Francesco a Nuoro

«Nel degrado il virus fa ancora più paura». Riceviamo e pubblichiamo una testimonianza diretta

10 novembre 2020
3 MINUTI DI LETTURA





Ore 6 e 30 del mattino. Arrivo presto in pronto soccorso, so che la vestizione richiede tempo ed i colleghi della notte non vedranno l'ora di andare via. Ognuno di noi ha lasciato a casa un figlio, magari un genitore anziano, un parente più vulnerabile, perciò il pensiero comune è quello di non contaminarci, e stare attenti. Inizio la vestizione, mi sento soffocare dentro la tuta, la mascherina non mi fa respirare, so già che la visiera mi lascerà il segno e che questo sarà visibile anche quando andrò a prendere il mio bambino al nido

Lui non sa quel che stiamo vivendo, ed è meglio così. Prendo consegna, vedo che qualche nome è cambiato ma la maggior parte dei pazienti sono gli stessi e molti, come purtroppo vediamo ogni giorno, saranno peggiorati; noto subito che il mio codice rosso di ieri ha la C-Pap, non la tollera, urla disperato. Mi si stringe il cuore, cerco di rassicurarlo, somministro la terapia, gli metto un po di cotone nelle orecchie, do informazioni al familiare che chiama in triage.

Il signore in ambulatorio 2, invece, ha avuto un arresto respiratorio stanotte, è intubato in rianimazione, ha 63 anni e fino a ieri respirava bene in aria ambiente. Proseguo il mio giro e vedo disperazione, angoscia e smarrimento, sentimenti che proviamo anche noi infermieri, ma che non possiamo esternare; il nostro ruolo richiede professionalità e fermezza, non possiamo far vedere la nostra paura. Sono solo le 10 e vorrei andare in bagno, vorrei bere, sistemarmi la mascherina, ma non posso, non devo contaminarmi. Mentre cerco di preparare la terapia, arriva l'ennesimo caso sospetto, fame d'aria, tosse, febbre. Ha 53 anni, non è il primo e non sarà l'ultimo. È assolutamente vigile e mentre gli spieghi che cosa stiamo facendo ed il perché, con angoscia chiede se potrebbe avere il Covid, ed io gli rispondo che il tampone rapido purtroppo è positivo. Hai tanti pazienti e cerchi di dare risposte a tutti, assisterli, fare triage e trattare tutti. Manca un ambiente confortevole, i comodini non esistono, solo sacchi di indumenti poggiati per terra; molte barelle sono rotte, dobbiamo bloccarle noi con i mezzi di fortuna, ma una delle cose che più ci ha sconvolto è stato vedere i pazienti litigare per l'accesso all'unico bagno. Un degrado senza fine.

Penso che sia impensabile garantire una buona assistenza con un solo medico in tutto il pronto soccorso, pulito e sporco, e con soli tre, quattro infermieri, gestire le varie centrali operative, emergenze, problemi logistici. Il sentimento comune è la solitudine. Dopo sette ore, dieci se faccio la notte, mi tolgo la tuta e mi viene da piangere. Ho fatto tutto quello che potevo, ma non è mai abbastanza. Sono completamente fradicia, mi sistemo velocemente, ho i segni della visiera in fronte, il viso stanco, la consapevolezza che tutto questo durerà a lungo. È un pensiero totalizzante. Stimbro, corro fuori, c'è il sole. Domani si ricomincerà, un altro giornata spesa a lottare contro il Covid 19.

Lettera firmata

In Primo Piano
Sanità

Ospedali, Nuoro è al collasso e da Cagliari arriva lo stop ai pazienti

di Kety Sanna
Le nostre iniziative