La Nuova Sardegna

«In quel reparto c’è amore è sbagliato trasferirlo»

di Kety Sanna
«In quel reparto c’è amore è sbagliato trasferirlo»

La testimonianza di Piera, 51 anni di Gavoi, da tre in lotta contro il cancro «Lì mi sono sempre sentita protetta, ora ho paura di essere abbandonata» 

16 novembre 2020
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NUORO. «Era una cosa che non rientrava nei miei programmi. Un’ipotesi quasi impossibile a cui non avevo mai pensato. Eppure ho iniziato a stare male, e ho saputo di avere un tumore nel modo peggiore». Piera Podda, 51 anni di Gavoi, da tre lotta contro il cancro. Ora, alla notizia dello spostamento del reparto di Oncologia del San Francesco, prova delusione e paura.

Responsabile di produzione della “3 A” di San Gavino Monreale, tiene a sottolineare che nella sua vita ha sempre fatto scelte prettamente maschili. Gli studi all’istituto agrario di Nuoro, prima e la laurea in Agraria poi, le hanno permesso di avere un ruolo di responsabilità all’interno del caseificio dell’Arborea. È sempre stata una combattiva. «Era il 2017, stavo male da diversi mesi. Sembrava un’occlusione intestinale ma il medico di famiglia mi aveva mandata subito in Pronto soccorso. Ero stata ricoverata e sottoposta a intervento chirurgico. Poi la decisione di fare l’esame istologico per capire meglio la situazione. Un’estenuante attesa del responso, durata un mese, il più brutto della mia vita. Tumore al colon, il verdetto. Il chirurgo che mi aveva operata mi aveva indirizzata subito in Oncologia dove ho sempre trovato persone serie con tanta umanità. Per noi pazienti l’approccio psicologico è fondamentale per affrontare la battaglia. La prima seduta di chemio non la scorderò mai. Ho sempre avuto con me il mio angelo custode, mia sorella, che non mi ha mai lasciata da sola. Ero molto impaurita, nonostante i medici mi avessero preparata. Avevo provato una sensazione di soffocamento, uno dei tanti possibili effetti collaterali della terapia». Il primo ciclo di cure per Piera era durato sei mesi. Poi nuovi controlli. Purtroppo si era reso necessario un altro ricovero. «Da Nuoro – racconta la 51enne – ero stata inviata all’Humanitas di Milano per iniziare una cura particolare, una radioterapia stereotassica. Ma non era bastata. Di nuovo un altro ciclo di chemio a Nuoro, di altri otto mesi. Il mio corpo aveva raggiunto un tale livello di tossicità da rendere necessario un ricovero in Medicina. Gli oncologi, non potendo più sottopormi a quel tipo di cure mi avevano inviata di nuovo a Milano, all’Istuto nazionale dei tumori, dov’ero entrata a far parte di uno studio sperimentale. In poco tempo avevo ripreso a stare bene. Avevo di nuovo la mia vita in mano. Nonostante tutto, però, la mia battaglia non era ancora finita». La lotta di Piera continuava mentre il suo corpo iniziava a trasformarsi. «Rispetto ad altri malati non sono cambiata più di tanto anche se guardandomi allo specchio non mi riconoscevo più. Io che ero abituata ad andare in piscina due o tre volte la settimana, a fare vasche di continuo, ora mi stanco se faccio tre piani di scale. Ho cercato di lavorare fino all’ultimo ma quando ti rendi conto che non puoi più continuare, è straziante. Ho perso parte dei capelli e avevo dovuto indossare una parrucca. La cosa più brutta fra tutte, è stato lo sguardo degli altri». Piera la settimana scorsa, quando si è deciso il trasferimento del reparto di Oncologia al terzo piano del San Francesco, era lì. Ha sentito con le sue orecchie due persone, non medici del reparto, che parlavano dello spostamento dei mobili. «Nonostante sia molto chiacchierona e reattiva non sono riuscita a dire nulla. Mi è venuta a mancare la terra sotto i piedi. Mi sono chiesta se dovessimo meritarci anche questo. Chi ha scelto il trasferimento ha pensato a tutte le conseguenze? Non si può decidere di sacrificare la vita delle persone. Mi sono sentita tradita. E ho pensato anche a loro, al personale del reparto che nel corso della prima ondata si adirava quando capitava che le medicine non arrivassero in tempo. Chi ha preso queste decisioni, sa del lavoro delicatissimo che i nostri medici svolgono con grande professionalità e tanto amore? Domani (oggi per chi legge ndr) avrei dovuto fare degli esami che, ovviamente, sono saltati. Quel reparto è un’eccellenza. È stato organizzato per accogliere pazienti fragili che necessitano di cure mediche, ma soprattutto psicologiche. Aveva una biblioteca e una bellissima sala d’attesa dove per mesi ho toccato con mano la sofferenza di decine di persone. Alcune non ci sono più. E intanto noi cerchiamo ancora di lottare e di andare avanti con la consapevolezza, però, che tua vita è cambiata. A 49 anni avevo tanti progetti. Ora non ho più sogni né programmi. Volevo comprare casa e invece mi concentro sulle persone care. Sulle cose che veramente contano».

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