La Nuova Sardegna

Moby Prince, il figlio del comandante: "Potevano essere salvati, ma nessuno li ha soccorsi"

Alessandro Pirina
Luchino Chessa e il padre Ugo
Luchino Chessa e il padre Ugo

Il 10 aprile 1991 Luchino Chessa perse i genitori nella strage nel porto di Livorno. "Si è tentato di dare la colpa a mio padre ma finalmente sta emergendo la verità". I morti furono 140

09 aprile 2021
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Della tragedia l’ha saputo solo l’indomani, per caso. Ha ricevuto la telefonata di un’amica. «Una nave ha preso fuoco a Livorno, l’ho sentito al Giornale radio». Luchino Chessa, 31 anni, giovane medico con tanta voglia di fare, ha appreso in questo modo la notizia che gli avrebbe cambiato la vita. Era il mattino dell’11 aprile 1991. La sera prima a un paio di miglia della costa toscana si era consumata la più grande tragedia della marineria civile italiana. La strage della Moby Prince, la “Ustica del mare” com’è stata anche ribattezzata. Centoquaranta morti tra passeggeri e personale di bordo del traghetto che era appena salpato da Livorno in direzione Olbia. Tra loro c’erano anche i genitori di Luchino. Ugo Chessa, 56 anni, cagliaritano, il comandante della nave, e la moglie Maria Luisa Ghezzani, 57 anni, originaria di Pisa, che il giorno prima aveva deciso di raggiungere il marito.

«Appena la mia amica mi ha dato la notizia dell’incidente a Livorno, ho subito collegato le cose e non ho avuto dubbi che si trattasse della Moby Prince – racconta Luchino Chessa –. Lo sono venuto a sapere così, casualmente: nessuno mi ha avvisato. Ho preso immediatamente un aereo per Firenze e in treno ho raggiunto Livorno». Luchino e il fratello Angelo, 6 anni più giovane, sono una delle tante famiglie travolta dalla tragedia del 10 aprile 1991. Ma loro, appena rimasti orfani, si trovano da subito a lottare per difendere la memoria del padre, perché fin dal primo momento l’incidente viene liquidato come un errore umano, una distrazione. Colpa del comandante, dunque. «Dall’inizio si percepiva che volessero scaricare tutto su mio padre – racconta –. Subito tutti a parlare di nebbia, buio, errore umano, tirarono fuori anche la partita della Juventus. Ma noi a questa versione non ci abbiamo mai creduto e abbiamo deciso di lottare, mettendoci anche in gioco».

Da allora sono passati trent’anni, ma la verità su cosa accadde la notte del 10 aprile 1991 è ancora avvolta nella nebbia. Luchino Chessa - e come lui i familiari delle altre 139 vittime - non demorde e continua la sua battaglia per avere giustizia. «Neanche il più semplice marinaio o pescatore avrebbe fatto quello di cui è stato accusato mio padre – spiega –. Io so quali erano le sue competenze, aveva alle spalle ogni tipo di esperienza dagli oceani ai mari del Nord Europa. Aveva iniziato da giovane, nei primi anni Settanta. Era un uomo di mare attento, severo, rispettava le regole e le faceva rispettare. Ma nella vita era un buono». Fino a pochi mesi prima padre e figlio avevano anche lavorato insieme proprio sulla Moby Prince: Ugo comandante, Luchino medico di bordo. «Sono vivo per miracolo, quella sera sarei dovuto essere sulla nave. Volevo continuare a fare il medico di bordo come la stagione precedente, ma mio padre si oppose. Preferiva continuassi a insistere sull’università. E così vinsi una borsa di studio regionale di pochi spiccioli, sufficienti per dedicarmi alla specializzazione, e non mi imbarcai. Al mio posto è morto Paolo Mura, giovane medico di Carbonia. Le nostre vite si sono intrecciate più volte, fino a quella notte». Sulla Moby Prince, però, c’era la madre Maria Luisa. «Fu un caso, lei raramente raggiungeva mio padre. Lo fece quella volta. Prese il volo da Cagliari per Olbia, anche se ricordo che mi chiamò e mi disse: “non so riuscirò a partire, c’è un aereo fuori pista a Elmas”». Invece, il destino volle che fosse di fianco al marito in quella tragica notte di trent’anni fa.

Fino a quella notte Luchino era «un giovane medico spensierato che si stava specializzando in gastroenterologia, applicato al lavoro, con la voglia di fare esperienze diverse all’estero», così si definisce lui trent’anni dopo. Da quel momento però la sua vita ha dovuto prendere tutt’altra direzione, dedicando gran parte del suo tempo - oltre alla professione - alla battaglia per cercare la verità. «Da subito ci siamo trovati di fronte un muro di gomma – racconta –. Noi familiari abbiamo cercato di dare il nostro contributo, i nostri input ai magistrati, ma ci siamo resi conto fin dal primo momento che c’era un indirizzo per andare verso una sola direzione. E così sono nate tutte quelle verità di comodo, dalla nebbia alla distrazione, contro cui ancora ci troviamo a combattere. Nell’immaginario collettivo purtroppo è stato considerato un banale incidente, dalla stampa all’opinione pubblica tutti avevano questa convinzione e ciò ha indirizzato un po’ tutto. Invece, bisogna chiamarla con il vero nome: strage».

Il problema è che con il passare degli anni la strage della Moby Prince era passata quasi nel dimenticatoio, quasi fosse una tragedia di serie B. Ma i familiari non si sono mai arresi. Anzi, più passavano gli anni e più aumentava la sete di verità e giustizia. «A darci la carica sono state le conclusioni dell’inchiesta bis del 2010. I giudici avevano detto chiaramente che si era trattato di un errore umano, che la causa fu la distrazione della plancia del traghetto. Per noi fu il momento più drammatico, anche perché ci accusarono di avere, in qualche modo, fatto spendere risorse inutili, sottraendole alla giustizia. Questa è stata una specie di molla, di partenza nuova. Ci siamo affidati a Gabriele Bardazza, che è diventato la memoria storica della Moby Prince ed è diventato un supporto fondamentale. Lui ha preso tutti i punti dell’inchiesta bis e li ha rivoltati». In quello stesso momento sono iniziate diverse campagne di sensibilizzazione. La strage della Moby Prince è ritornata d’attualità, è uscita da quel cono d’ombra in cui era precipitata negli anni, anche grazie a un forte tam tam social. E anche la politica - finalmente - ha deciso di provare ad accendere un faro su quanto accadde la notte del 10 aprile 1991. «Fino ad allora, a parte sporadici interventi di singoli parlamentari, c’era stato molto silenzio da parte della politica. L’appello a Renzi su change.org è stato un volano che ha fatto aumentare l’attenzione su di noi in maniera esponenziale. Da allora molti parlamentari ci sono stati vicini - penso ai senatori Silvio Lai, Luigi Manconi, al deputato Michele Piras -, poi è stato il presidente del Senato, Pietro Grasso, a spingere ulteriormente perché si creasse la commissione d’inchiesta». Ed è proprio dal lavoro della commissione presieduta da Silvio Lai che ha iniziato a emergere un’altra verità rispetto a quella venuta fuori dai processi.

«La commissione ha ribaltato completamente le risultanze processuali. La nebbia non può essere stata la causa della strage perché quella notte nebbia non ce n’era. L’Agip Abruzzo si trovava in una zona vietata alla sosta e alla pesca. Le persone non sono morte sul traghetto in 20 minuti, ma dopo ore perché i soccorsi non sono mai arrivati. Io ho fatto il soccorritore alpino e si fa sempre il massimo per salvare le vite. Perché qui li hanno lasciati morire? Mio padre è stato assalito dalle fiamme, è morto carbonizzato, ma gli altri no. Erano tutti lì, a due miglia dalla costa, in attesa dei soccorsi che non sono mai arrivati. Una cattiveria immane». I familiari delle vittime spingono perché nasca una nuova commissione, questa volta bicamerale, che faccia luce sui tanti punti ancora oscuri, nonostante il tribunale di Firenze abbia liquidato i lavori di quella precedente come un atto politico. «Uno schiaffo maldestro, di una gravità estrema, siamo davanti a un cortocircuito dello Stato. Come se le commissioni su Moro o sulla P2 non avessero avuto alcuna valenza». Neanche quest’anno il 10 aprile, a causa dell’emergenza Covid, a Livorno ci saranno eventi pubblici per ricordare la strage e Chessa resterà a Cagliari. «L’importante è esserci con il cuore. Anche perché noi a Livorno ci siamo sempre. Da trent’anni».

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