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Il gioco per restituire il sorriso ai bimbi testimoni dell’orrore

Giuseppe Centore
Il gioco per restituire il sorriso ai bimbi testimoni dell’orrore

Pina Deiana, psicologa di Sedilo, da otto anni con Medici senza frontiere. Ha applicato la ludoterapia tra i rifugiati siriani nelle isole greche o in Iraq

13 aprile 2021
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ORISTANO. «E adesso, cosa faccio qui?». Pina se lo è chiesta tante volte, in Congo, in Iraq, al confine tra i territori curdi e le aree conquistate dall’Isis, in Indonesia nella baraccopoli dove i Rohingya vittime di genocidio in Birmania cercano pace. Le risposte sono arrivate naturali, negli occhi dei bambini, nelle parole strappate a chi ha conosciuto l’inferno in terra. Pina Deiana, nata 60 anni fa a Sedilo, la settimana prossima partirà per l’Asia, a combattere una nuova battaglia in difesa di chi ha perso tutto. Pina, psicologa di scuola sistemico-relazionale, laurea alla Sapienza, «allora non c’era la facoltà in Sardegna», da otto anni lavora con Medici senza Frontiere nei campi profughi di mezzo mondo applicando, perfezionato in anni di pratica, un progetto di giocoterapia e storybuilding a favore dei bambini e dei ragazzini che arrivano nei campi profughi. Certo, basta farli giocare e tutti i traumi passano, direte voi. Provate a far giocare, o solo parlare, quei bambini che hanno visto le teste dei loro genitori mozzate dagli aguzzini dell’Isis e rotolare davanti ai loro piedi; che hanno visto gli amici saltare in aria su una delle milioni di bombe inesplose in Afghanistan, che hanno visto la morte attraversando con un gommone, di notte in inverno il tratto di mare tra la Turchia e la Grecia. Facile, vero? Ecco, Pina fa esattamente questo, e lo racconta con naturalezza come se fosse una educatrice in una ludoteca di un paesino della Sardegna.

A seguire il suo racconto, ma prima di darle la parola, una avvertenza. Pina aveva un lavoro, svolgeva la libera professione di psicologa a Roma. Poi ha deciso di abbracciare la causa dei rifugiati, «quelli che non hanno diritti, secondo l’Occidente» e ha deciso di lavorare con MsF. Le sue “missioni” all’estero durano sei mesi, per salvaguardare capacità psichiche e fisiche. Per due volte è stata a Lesbo, nel 2016 e nel 2018, e nella sua capitale Mitilene (ma lei la pronuncia alla greca, Mitilini). La bella Lesbo, cantata da Saffo e Alceo. La terribile Lesbo, con un campo profughi da 10-12mila persone, fatto solo di tende, di paura e con la violenza che incombe.

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«Per me Lesbo è la storia di un afgano che avevo seguito attraverso il Consiglio Italiano per i Rifugiati. Mi aveva raccontato, come se fosse un film, di come era giunto a riva, di primo mattino, bagnato infreddolito e aveva camminato verso quella che sembrava una borgata, quando una donnetta lo aveva visto e impietosita lo aveva ospitato, dandogli da mangiare, e facendolo riposare una notte prima di fargli riprendere la strada della borgata, dove però c’era un campo. Lesbo per me era questa immagine, questo cancelletto di una dignitosa casa che si apre e accoglie. Una figura per certi versi bucolica. E invece sapevo che stavo andando verso il campo di Moria, una distesa infinita di tende e qualche container, allestito per i rifugiati di transito, diventato per migliaia un purgatorio senza data di addio. Un degrado infinito, al punto che MsF a un certo momento è uscita dal campo per non esser complice di quella situazione, aprendo una clinica pediatrica vicina. A Moria una persona su due è minore». Un esercito disarmato di bambini, cresciuti e incattiviti in poco tempo. Dopo pochi giorni dal loro arrivo cominciano gli episodi di sofferenza, tra questi l’enuresi. «Si facevano la pipì addosso a letto». Per quelle famiglie ammassate in pochi metri, con un solo vestito, con un materassino di gomma che doveva servire tutti, la pipì a letto non è un fastidio, ma la spia di un malessere mentale. «Lì abbiamo affinato le nostre tecniche terapeutiche, con l’aiuto di mediatori culturali. Come potevo aiutarli a superare l’orrore che si leggeva nei loro occhi? Facendogli raccontare la loro storia. Ma non quella individuale, bensì collettiva». Così si è messo in piedi un vero e proprio psicodramma, con i bimbi che sceneggiavano il racconto, sceglievano i personaggi, le loro caratteristiche fisiche e comportamentali, i nomi, le loro origini.

«Li abbiamo riuniti in gruppi il più possibile omogenei e abbiamo giocato facendogli descrivere un racconto con due personaggi immaginari, sui quali hanno proiettato il loro vissuto, i loro incubi, le paure, e persino i desideri. Il racconto era di tutti e di nessuno. E lì sono emerse storie indicibili, anche per noi adulti. E alla fine, dopo otto interminabili sedute abbiamo trasformato la loro sceneggiatura in un libriccino con i disegni che abbiamo dato a ciascuno di loro. Chi leggeva, chi raccontava la storia ai genitori, chiamati per la prima volta ad assistere, descriveva un mondo altro, passato, se non proprio lontano».

E i genitori? «Piangevano increduli, non capivano: ma come, mio figlio aveva tre anni, come faceva a capire certe cose?» Il potere delle emozioni, oltre i linguaggi, più profondo dei gesti, ha fatto capire loro ciò che non dovevano capire. «I bambini hanno messo sulle loro spalle gli eventi immaginari che hanno raccontato, proiettandoli li hanno rivisti a distanza; hanno visto che sono sopravvissuti e che hanno superato quegli eventi e che hanno davanti un futuro. Sono usciti dal ruolo di vittime passive e si sono visti come eroi. Adesso erano giunti alla loro terra promessa, l’Europa. Sognavano una altra nave per la Germania, la Norvegia, il nord Europa. Avevano visto l’inferno, sapevano di essersi meritati il paradiso». E come dargli torto?

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