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La sassarese Rita Sieni: «Massacrata e umiliata, il G8 è la mia ferita aperta»

Silvia Sanna
Rita Sieni
Rita Sieni

Il ricordo del pestaggio subìto durante le manifestazioni. «I poliziotti mi riempirono di botte, io urlavo “perché” ma loro continuavano»

14 luglio 2021
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SASSARI. Il manganello sulla faccia, quando era già a terra. La sua voce che urlava “perché, perché?”, il dolore forte a una mano e alla bocca, e poi il buio quando l’amica la trascinava via, fuori da quella bolgia di teste, calci, pugni tirati a casaccio: «Erano almeno 10, forse 15, picchiavano tutti, volevano fare male». Ma non è ancora finita. «Lo ricordo come fosse ieri: io barcollo sanguinante trascinando le gambe e uno dei poliziotti mi spruzza sul viso lo spray urticante. Non vedo nulla, non respiro, per fortuna un ragazzo mi getta un po’ d’acqua sul viso». Poi la fuga verso il mare che sta lì dietro, con la sensazione di essere inseguiti, come prede da cacciare. «Ci siamo ritrovati con gli altri del gruppo: tutti malconci, io quella messa peggio. Sono arrivate le ambulanze, ci hanno caricato. In ospedale qualcuno mi ha spinto sotto la doccia, ricordo l’odore pungente nella cabina, i lacrimogeni che non andavano via dalla mia pelle». L’ultima tappa nell’ambulatorio, con i medici che quando la vedono scuotono la testa: “Signora lei deve ricoverarsi, ha bisogno di cure”. Ma Rita Sieni dice di no e firma per andare a casa: «Avevo paura, nelle corsie c’erano poliziotti ovunque. Ero terrorizzata al pensiero che venissero a terminare l’opera. Carlo Giuliani era stato ucciso il giorno prima, potevo essere io la seconda vittima del G8 di Genova».

Vent’anni dopo. Sono passati 20 anni da quel giorno di luglio. Rita Sieni ha 59 anni, un sorriso bellissimo e un velo di tristezza negli occhi. Neppure ci fa caso, ma spesso con la mano destra accarezza quella sinistra, e poi sfiora la fronte: dove c’era un buco è rimasto un piccolo segno. Rita, sassarese, aveva 39 anni quando insieme al gruppo pacifista"Coordinamento pinerolese contro il G8" andò a sfilare a Genova. A Pinerolo si era trasferita dopo la laurea in Storia dell’Arte al Dams di Bologna e proprio nel periodo del G8 aveva grandi progetti. «Facevo la massaggiatrice e stavo per aprire uno studio tutto mio. Invece sono tornata a casa con un tendine della mano sinistra rotto e tutto è diventato più complicato perché non potevo più fare il mio lavoro». Anche la mandibola era fratturata e nei trenta giorni successivi Rita ha mangiato solo pappette, accudita con amore dalla sua famiglia in Sardegna, dove ha immediatamente cercato e trovato rifugio. E dalla Sardegna è partita anche la battaglia giudiziaria che si è chiusa nel 2007, 6 anni dopo: «Non ho ottenuto giustizia perché nessuno dei poliziotti che mi ha massacrato ha pagato per quello che ha fatto. Ma almeno ho avuto un risarcimento in denaro». Prima 24mila euro, poi cresciuti sino a 30, pagati dal Ministero dell’Interno. «A partire da quel denaro – racconta Rita – ho rimesso in piedi la mia vita finita in pezzi. Dopo 6 anni in apnea ho cominciato la risalita che mi ha portato lontano dall’Italia». A Cordoba, in Argentina: è lì che Rita trascorre almeno 6 mesi all’anno da quando, utilizzando il denaro del risarcimento, ha acquistato una casa dove vive con suo marito Josè, argentino conosciuto a Pinerolo. Non lo dice, ma è chiaro che si è aggrappata al braccio di Josè come 20 anni fa a quello della sua amica in mezzo alla bolgia, per riemergere dal buco nero che rischiava di inghiottirla un’altra volta.

21 luglio 2001. Era sabato e il clima era elettrico: «Il giorno prima era stato ucciso Carlo Giuliani in piazza Alimonda, si sentivano elicotteri ovunque, le divise stavano in ogni angolo. Il pericolo si percepiva. E infatti discutemmo a lungo prima di partire. Ma decidemmo di andare pensando che era giusto e che a noi non poteva succedere niente, perché eravamo in pace, a manifestare contro la globalizzazione e per la tutela dell’ambiente. E poi eravamo tutti vestiti di bianco, in modo che nessuno potesse confonderci con il black bloc. Invece non è bastato». Nel corteo che marcia lento in corso Italia sventolando striscioni e bandiere si inseriscono dalle viuzze laterali piccoli gruppi ribelli, indossano caschi, hanno corazze, mazze e martelli: «Bastò uno sguardo tra noi – ricorda Rita – dovevamo fermarci, separarci da loro». Ma non ci fu il tempo. Perché la polizia arrivò in un amen, preceduta dal lancio dei lacrimogeni. «Mi voltai per scappare, ma era tardi. Li vidi addosso, caddi a terra, mi pestarono e calpestarono. Sentii l’odore del mio sangue. Ho pensato che per me fosse finita, vidi la morte, faceva paura».

22 luglio 2001. Il giorno dopo Rita è a casa, parla a fatica al telefono, tenta di rassicurare la sua famiglia in Sardegna. Per i Sieni è una giornata strana, segnata da sentimenti estremi: di angoscia per Rita e di felicità per la nascita di un nipotino «il figlio di mio fratello. Per questo il calendario, quando quella data si avvicina, mi fa ancora più impressione». E tutto ritorna in mente: «Provo la stessa sensazione di allora, di essere stata violata, abusata da chi esercitava su di me e su tutti i manifestanti un potere che nessuno dovrebbe avere. La verità sulla Diaz e su Bolzaneto è venuta fuori, l’Italia è stata condannata, ma poco o nulla è cambiato da quel giorno perché le forze dell’ordine in molti casi continuano ad avere gli stessi comportamenti: in America come in Italia, l’ultimo episodio nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Ed è lo Stato che dà loro questo potere. Il ricordo di quel giorno non mi lascerà mai e quel che è successo mi ha cambiata: vivo la vita in maniera ancora più semplice di prima. Vent’anni fa ero andata a manifestare fiduciosa per una causa giusta e ho rischiato di morire. Ora godo degli attimi ma guardandomi sempre le spalle».

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