Incinta perde il bimbo: dramma in Ostetricia e poi un ingiusto linciaggio
Sassari, insulti e minacce al personale sanitario costretto ad applicare le regole anti Covid per l'ingresso in ospedale
Un bimbo è adagiato su una nuvoletta, sembra in una culla di ovatta. «Piccolino perché sei qui?». Gli chiede qualcuno lassù. «La mia mamma non aveva il greenpass e non l’hanno fatta entrare in ospedale», risponde. La vignetta è terribile, spietata, virale. Mostra come una storia, quando finisce nel tritacarne dei media e dei social, possa essere strumentalizzata, distorta, affilata sino a renderla così acuminata da ferire nel profondo. Medici abituati a donare la vita, chiamati assassini, e minacciati di morte.
Un reparto d’eccellenza, come Ostetricia, finito dentro il tritacarne, un primario dalle eccezionali doti umane, come dottor Giampiero Capobianco, vittima dei peggiori insulti. Tutto questo in una deriva perversa di false informazioni, rimbalzate anche dalle più blasonate testate giornalistiche nazionali. Con i siti no vax che rovesciano la notizia come benzina sulle fiamme dell’indignazione, e i politici che alimentano il fuoco con interrogazioni parlamentari, per far sì che il bagliore illumini un po’ anche loro. E poi i riflettori e le telecamere, attirate come falene da troppa luce.
La Nuova Sardegna questa storia, l’ha raccontata per prima una settimana fa. È la storia di Alessia Nappi, venticinque anni, e del marito Enzo, una coppia di Sassari che da cinque anni cerca di avere un bimbo. Lei finalmente resta incinta, ma alla terza, o forse quarta, o quinta settimana di gravidanza (non è chiara la tempistica), ha delle perdite e un forte mal di pancia.
Sabato 8 gennaio si presenta al pronto soccorso Ostetrico delle Cliniche di San Pietro chiedendo di essere visitata. L’ostetrica all’accettazione ci parla, poi si consulta con il medico del reparto, e stabiliscono che il caso non rappresenti un’urgenza. Una perdita alla terza-quinta settimana è purtroppo un’eventualità frequente, potrebbe significare un principio di aborto, ma non esistono terapie che lo possano evitare. Quindi i medici decidono di gestire la paziente in pre-triage.
Quando lei insiste e chiede di entrare, le spiegano che l’ingresso è consentito solo dopo un tampone. Ma non ritengono opportuno farglielo, perché per loro non c’è l’urgenza. Le raccomandano di tenere sotto controllo la perdita, e se dovesse aumentare di ripresentarsi subito. La donna torna a casa, è molto amareggiata: quando sale in macchina l’emorragia aumenta, poco più tardi perderà il bimbo. Oltre alla tristezza e alla disperazione, le resta addosso la terribile sensazione di essere stata trattata come un numero, o peggio, come un’appestata, e di non aver fatto il possibile per salvare la vita che aveva dentro.
La Nuova Sardegna ha deciso di raccontare la storia, perché è un fatto di cronaca e perché emblematica. Restituisce il senso di un distanziamento che il covid ha scavato tra medici e pazienti.
Il virus ha cambiato le regole di ingaggio della sanità: chi salva le vite ora è chiamato anche a salvare se stesso, a proteggere i propri pazienti, il reparto, l’ospedale. Le porte si aprono alle urgenze, gli altri casi restano sull’uscio. Il laboratorio dell’Aou di Sassari l’8 gennaio aveva processato 1036 tamponi molecolari, di cui 16 per Ostetricia. Nelle settimane scorse erano state intercettate diverse mamme positive, poi ricoverate nel reparto covid di Ginecologia. I cluster interni si moltiplicano, e gli ospedali stanno con la guardia alta.
Il covid ha infilato guanti, tute e maschere ai dottori, e gli ha rubato lo stetoscopio. Ha generato una sorta di diffidenza reciproca, ha sterilizzato i rapporti, ha imposto un distanziamento empatico. È sopravvivenza, autoconservazione in mezzo a una pandemia che aggredisce ancora.
La storia di Alessia raccontava esattamente questo terribile prezzo da pagare. Una dose di empatia sottratta ai pazienti, uno scippo di umanità anche per i medici, che dietro gli scafandri stentano a ritrovare il calore del loro mestiere. La Nuova non ha mai ipotizzato una correlazione tra la mancata visita e l’aborto, perché sarebbe folle azzardarla in una fase così prematura della gravidanza.
Invece la narrazione, dentro al tritacarne mediatico, è diventata altro. Le cinque settimane su alcuni giornali nazionali sono diventate cinque mesi, l’embrione è diventato un bambino ucciso dalla malasanità, un aborto spontaneo un omicidio, i medici degli assassini, e il green pass lo spietato mandante. E ciò che spaventa di più è la violenza e l’odio delle parole.
Come il mare in burrasca che si agita rimestando melma, alghe, rifiuti, e relitti dalle sue profondità, così il covid sta scoperchiando il peggio dell’umanità. E i social riportano a galla brutti pensieri, brutte frasi e persone terribili, che sino a questa maledetta pandemia riposavano così bene sotto la superficie dell’indifferenza.