La Nuova Sardegna

Malasanità

Chirurgia pediatrica di Sassari, un reparto fantasma: per un'appendicite bisogna andare a Cagliari

di Andrea Sini
Chirurgia pediatrica di Sassari, un reparto fantasma: per un'appendicite bisogna andare a Cagliari

Il primario Francesco Battaglino si è dimesso il mese scorso: «Personale insufficiente e un approccio di totale indifferenza da parte della direzione sanitaria. Sono dovuto scappare»

08 novembre 2023
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Sassari Un gap culturale e organizzativo lungo cinquant’anni, una distanza come minimo decennale rispetto agli ultimi vagiti di quello che sarebbe potuto essere e non è mai stato. Quella sarda non è una sanità per bambini, men che meno lo è a Sassari, dove la terapia intensiva neonatale è una piccola e solitaria oasi in un deserto di servizi sempre più esteso. Che ora ha raggiunto e di fatto seppellito anche la Chirurgia pediatrica.

Un reparto fantasma Un mese fa il primario, nominato a giugno 2021 per colmare un vuoto di oltre 10 anni, ha rassegnato le dimissioni, ha fatto le valigie ed è scappato a gambe levate da una situazione di immobilismo sconcertante. Allo stato attuale il reparto garantisce solo le consulenze, ma non opera: anche per una semplice appendicite è necessario portare un piccolo paziente al Brotzu di Cagliari. Combinata all’assenza di una terapia intensiva pediatrica, la situazione diventa a dir poco emergenziale.

Porte chiuse «Il problema di fondo che ho riscontrato è la carenza di una vera cultura di chirurgia pediatrica, dal quale poi nascono tutti gli altri problemi. Ho dato le dimissioni perché la situazione non era sostenibile sia per la carenza di personale, sia per il totale isolamento rispetto all’azienda. Da voi si vuole tirare a campare, non costruire un’unità operativa che col tempo si possa mettere al passo e diventare appetibile anche per i professionisti che arrivano da fuori». A parlare è il professor Francesco Battaglino, che sino ai primi di ottobre era il primario dell’Unità operativa complessa di Chirurgia pediatrica. Era arrivato in Sardegna all’inizio del 2020, forte di una lunga esperienza sviluppata a Vicenza e di competenze da luminare acquisite sul trattamento delle malformazioni. «Per esemplificare al massimo il concetto di come ho potuto lavorare, dico a Vicenza ho operato centinaia bambini sardi, mentre a Sassari non ho potuto farlo».

L’approccio. «Venendo a Sassari avevo fatto quasi una scelta di cuore, ci sono tante famiglie sarde che mi sono riconoscenti e con le quali esiste un rapporto di vecchia data. Sono arrivato con la predisposizione per provare a costruire qualcosa, ma per farlo bisogna essere in due: il professionista e l’azienda. Io non sono stato supportato e neanche accolto: dopo una settimana che ero al lavoro ho dovuto telefonare in direzione per segnalare la mia esistenza e chiedere se ci fossero idee. Io scrivevo all’azienda, presentavo proposte e progetti, non ho mai ricevuto una sola risposta».

Le criticità Quali erano le richieste? «Sul personale, intanto: ci sono solo tre dirigenti medici, che però per questioni di salute o personali sono esonerati dall’attività notturna e in un caso da quella chirurgica. In queste condizioni era chiaramente impossibile trattare emergenze o ricoveri. Ma io sono un chirurgo, ho passato la vita a operare bambini, volevo fare attività. Ho chiesto rinforzi, di farmi mandare uno specializzando e di rendermi reperibile anche in maniera non riconosciuta e non retribuita. Nessuna risposta. Ci sono stati poi tre concorsi, due sono andati deserti, nel terzo l’unica candidatura non è andata a buon fine. La verità è che i giovani colleghi non vogliono venire a lavorare in una situazione di totale arretratezza, vogliono andare in strutture dove fa chirurgia laparoscopica avanzata e robotica. Di tutto questo a Sassari non esiste nulla, ci sono mille miglia di distanza».

Passi indietro «Io provenivo da un reparto di chirurgia pediatrica che era autonomo dal 1971, e ora si fanno 1400 interventi l’anno – spiega Battaglino –. A Sassari non c’è mai stata una struttura autonoma e questo ne ha impedito la crescita culturale e organizzativa. E l’assenza della terapia intensiva pediatrica è il rovescio della stessa medaglia. Dal momento in cui il mio predecessore a Sassari è andato in pensione sono passati oltre 10 anni e nel frattempo la chirurgia pediatrica è cresciuta in maniera pazzesca, mentre qua è rimasto tutto fermo. Ho provato a costruire qualcosa ma non ho trovato interlocutori».

Numeri al ribasso «Le cifre che ho letto in questi giorni sono al ribasso. Certo, se si contano solo i pazienti da zero a 14 anni, e si escludono quelli che vengono presi in carico da neurochirurgia, ortopedia, urologia e altri reparti, allora la casistica scende: ma la chirurgia pediatrica va da zero a 18 anni, e a livello chirurgico andrebbe trattata con specifiche competenze pediatriche. E dunque i pazienti pediatrici dovrebbero andare in un reparto per loro, anziché venire smistati nelle rianimazioni per adulti, dove non c’è una specifica preparazione pediatrica. Perché da voi non si parla di pediatri intensivisti, che sono il futuro ma anche il presente?».

Infine i voli salva vita: «Una follia pensare che una parte così rilevante della sanità sarda si possa basare sui voli, anziché sulle strutture in loco – dice il medico –. Tutto questo non ha niente a che vedere con l’umanizzazione della sanità. Le famiglie sarde pagano le tasse come gli altri, hanno diritto ad avere presidi sanitari all’avanguardia sul territorio. Perché mai la Sardegna non dovrebbe puntare ad avere una Tip regionale da 6 posti? In Veneto ci sono in totale 24 posti. L’associazione di Dessanti ha donato alla Rianimazione due respiratori per bambini, sono già un ottimo punto di partenza: intendo dire che se anche la Tip venisse realizzata a Cagliari, a Sassari ci potrebbero comunque essere due posti “d’appoggio” per i bambini all’interno della rianimazione».

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