La Nuova Sardegna

Una città e le sue storie
Una città e le sue storie – Olbia

Le radici profonde dell’accoglienza

di Marco Bittau
Le radici profonde dell’accoglienza

Una caratteristica che ha plasmato con amore e con sudore una comunità laboriosa, eterogenea, multietnica e multiculturale, prodotto di contaminazioni, sovrapposizioni e sedimentazioni storiche, dall’antichità ai giorni nostri

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Da sempre la modernità è il punto d’arrivo di una lunga storia e per questo, senza solide e profonde radici, non potrà mai esistere la città del futuro. Insomma, niente nasce dal nulla. Lo sanno bene gli olbiesi, figli diversi della stessa madre, l’Accoglienza, che nel mito della terra promessa ha plasmato con amore e con sudore una comunità laboriosa, eterogenea, multietnica e multiculturale, prodotto di contaminazioni, sovrapposizioni e sedimentazioni storiche, dall’antichità ai giorni nostri. Una apparente “non identità” che finisce per essere essa stessa dna, anima e cuore della città nuova e della comunità che la vive e la abita. Una sorta di work in progress antropologico che vive nei giorni nostri una brusca accelerata, adeguata ai tempi che viviamo, veloci al punto da non consentire riflessioni compiute su mutamenti che, appena inquadrati, sono già passato remoto.

Eloquente il giudizio illuminato espresso da Rubens D’Oriano, archeologo già direttore della Soprintendenza: «A chi dice che la città ha perso le sue radici, io invece rispondo che adesso è di nuovo se stessa». Per una città-comunità che corre veloce e macina primati la certezza delle radici è dunque vitale. Avere una identità significa essere un centro pulsante, consapevole delle proprie origini ma anche del proprio orizzonte; non averla significa essere un non-luogo privo di una visione prospettica, miope, legato al tempo leggero di un’estate. Chi siamo e cosa vogliamo diventare, è la domanda, l’identità è la vera e unica risposta.

Nel caso di Olbia, la valutazione delle radici e dell’identità è contenuta nella sua stessa natura di città dell’accoglienza ed è articolata su piani differenti. Prima di tutto la sua storia, antica e recente ma sempre ricca e affascinante; quindi le sue tradizioni, legate anche alle diverse comunità presenti in città, prodotto appunto dell’accoglienza; infine la sua devozione, profonda, latente in molti aspetti della vita quotidiana e dirompente nelle sue periodiche manifestazioni rituali, immutabili nel tempo. Sono i giorni magici delle sagre di primavera, quelli in cui la città moderna e sfavillante si riscopre un po’ campagna e un po’ paese. Prima si allinea austera nelle processioni religiose, poi si abbandona alle debolezze profane: le giostre, le cozze, i panini ai polpi.

È l’olbiesità nuda e cruda che fa capolino nel bel mezzo della festa popolare rivendicando legittimamente il suo spazio nell’anima identitaria della città. San Simplicio, San Vittore e Cabu Abbas in primavera, ma anche San Giovanni al confine tra Olbia e Arzachena. E poi d’inverno, a gennaio, Sant’Antonio abate con il suo “fogarone” propiziatorio, uno dei più evidenti prodotti della contaminazione, veicolato dalle comunità provenienti dalla Barbagia e dal Goceano, insediate felicemente a Olbia. Oltre naturalmente i riti antichi della Settimana santa, intorno alla chiesa di San Paolo, nel cuore del centro storico. Non solo sagre e feste comandate, però. La città dell’accoglienza oggi è perfettamente visibile e leggibile nel suo tessuto urbano. La esprimono interi quartieri dai nomi inequivocabili: Orgosoleddu, zona Bandinu. Altrove, interi settori del centro storico (San Simplicio, via Acquedotto), con gli anni hanno cambiato identità trasformandosi in un crogiuolo di razze e di culture, di lingue e di quotidiane abitudini. Nuovi spazi e nuove identità, ancora e sempre nuove radici.

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