Il cardinale Pierbattista Pizzaballa in prima linea a Gerusalemme: «Vogliono radere al suolo Gaza»
«Il conflitto tra questi due popoli andrà avanti anche dopo la fine della guerra»
«Deve perdonarmi, ma vado di fretta, la situazione qui sta diventando sempre più difficile». La telefonata con il cardinale Pierbattista Pizzaballa, patriarca di Gerusalemme dei Latini, è fissata per le 10. Ancora non è partito il raid israeliano sull’ospedale Nasser, nel sud della Striscia di Gaza. Alla fine della conversazione i morti saranno venti. Si sta facendo l’abitudine all’orrore.
«Se Hamas non accetta le nostre condizioni per finire la guerra, Gaza City avrà lo stesso destino di Rafah». Il ministro israeliano della Difesa, Israel Katz è determinato. Si discute di radere al suolo tutto.
«Noi lo sappiamo da settimane. Vogliono fare a Gaza city quello che è stato fatto a sud della striscia. Stiamo discutendo con i nostri fratelli che sono dentro la città su cosa fare e su come comportarsi perché si parla della loro vita. Comunque sia, questo è un piano incredibile e ingiustificabile. Non ci sono più ragioni per una cosa del genere».
Un mese fa anche i cristiani sono finiti in mezzo all’orrore di questo massacro. È stata bombardata la Chiesa della Sacra famiglia, l’unica parrocchia cattolica presente nella striscia, punto di riferimento per centinaia di civili in cerca di aiuto. Che succede? Secondo lei è un messaggio per spingere anche voi ad andarvene? Avete mai pensato di farlo?
«No. Non abbiamo mai pensato di farlo anche perché la gente non saprebbe dove andare. Per molti partire significherebbe anche morire, perché ci sono anziani e disabili che sono debilitati anche da mesi di malnutrizione. I nostri qualcosa ancora riescono a mangiare, ma ormai non è possibile assumere vitamine e proteine. Fare chilometri a piedi sotto il sole vuol dire morire di sicuro. Quindi, resteranno lì. Adesso la situazione sembra ancora più grave, ma qui si vive alla giornata».
Le trattative proseguono da tempo ma, nonostante una mobilitazione che attraversa i Paesi del mondo intero, non ci sono passi significativi. Quanto è lecito sperare? Dobbiamo prepararci al peggio?
«Mi pare che dalle due parti forse manchi la fiducia, mancano le condizioni per arrivare a una conclusione, ma io spero sempre che la comunità internazionale, soprattutto gli Stati Uniti, riescano a fare quella pressione necessaria per convincere le parti a cedere a qualcosa, perché una pace perfetta non esiste quindi bisogna arrivare a un compromesso accettabile per le parti in causa. Io me lo auguro. Preghiamo anche per questo ma la preghiera serve soprattutto per darci quella serenità interiore e per vivere dentro questa situazione nella quale tutti, chi ha fede e chi no, ugualmente si sentono impotenti. Umanamente impotenti».
Da uomo di Chiesa come la vive? Lanciate appelli ma a poco servono.
«Beh, la speranza è figlia della fede. La fede è l'unico riferimento che abbiamo molto spesso, soprattutto in queste circostanze drammatiche, dove l'umanità e l'uomo sembrano aver perso l'orizzonte. Ecco e quindi che per noi è importante aggrapparsi alla fede. Che non risolve i problemi è chiaro, ma dà la possibilità di vivere dentro a queste situazioni con uno spirito diverso».
Cardinale, nell’omelia in occasione della solennità dell’Assunzione lei ha detto che “la fine della guerra non segnerebbe comunque la fine delle ostilità e del dolore che esse causeranno”. Quindi in futuro continueremo a fare i conti con questo disastro?
«La fine della guerra non è la fine del conflitto, questo elemento l'abbiamo chiaro. Poi questa guerra ha segnato in maniera molto profonda dentro le due popolazioni, israeliana palestinese, sentimenti di odio, di rancore, di vendetta, di ira con i quali avremo che fare ancora per molto tempo. Quindi i processi di guarigione richiederanno moltissimo tempo, sempre a condizioni però che finisca la violenza, insomma che si in inizino a dare prospettive diverse, un orientamento diverso a questo conflitto. Ma non vedo questo all’orizzonte per cui la fine della guerra e di questa carneficina inaccettabile non segnerà comunque la fine di tutto. Ancora per molto tempo avremo a che fare tutti, come comunità internazionale, con questa situazione».
Pochi mesi fa lei era seduto in Conclave e il suo nome circolava tra quelli possibili per il pontificato.
«Sì, ma solo tra i media…».
Beh, ma si sarebbe sentito pronto?
«Nessuno è mai pronto per una cosa del genere e se uno si sente pronto vuol dire che non è adatto. Perché il pontificato è una cosa molto grande, che va oltre le possibilità umane di ciascuno, quindi. Va bene così, noi siamo contenti per quello che abbiamo fatto».
Prima del conclave si parlava di divisioni del collegio cardinalizio, eppure il papa è stato eletto al quarto scrutinio. Se questa non è unità…
«Penso di sì, ma unità non significa uniformità. C'erano anche al nostro interno idee diverse grazie a Dio. Vuol dire che non siamo in Unione Sovietica. C’era un comune intento, quello di trovare un candidato ideale per il bene della Chiesa, non per il bene di qualcuno».
E cos’ha influito, secondo lei, sulla scelta di Prevost?
«Il suo curriculum. È stato superiore generale dell’ordine di Sant’Agostino, quindi ha esperienza di governo, è stato in Curia negli ultimi due anni quindi conosce la “macchina”, è stato missionario, quindi conosce le varie anime della Chiesa».
Ecco, la Chiesa. È sempre più globale ma c’è un crescente distacco, anche tra i battezzati. Questo la preoccupa?
«Beh, sì, e no. Diciamo che finisce un modello di chiesa. È finito, insomma, un “sistema” di Chiesa, non mi vengono altre espressioni. Ecco, il cristianesimo tradizionale è sempre più fragile, diciamo così. E il cattolicesimo è sempre più legato a nuove forme di comunità e di testimonianza. Quindi, non bisogna avere paura di quello che finisce, però dobbiamo essere coscienti, responsabili di quello a cui siamo chiamati. Cioè abbiamo bisogno, anche dentro a questo mondo sempre più secolarizzato, di dire una parola chiara, propositiva, costruttiva. Più di preoccuparci di quello che finisce dobbiamo essere parte di quello che si sta costruendo».
Da anni assistiamo pure a un crescente calo delle vocazioni. Qual è la sua spiegazione?
«Da un lato c’è un calo demografico poi un pensiero sempre più individualista. Manca il senso di comunità e le famiglie, da cui le vocazioni vengono, sono sempre più fragili. È molto raro trovare famiglie stabili. Dall’altro lato c’è bisogno da parte del mondo delle istituzioni della Chiesa di qualcosa di più appassionato. Un giovane non lascia tutto se non vede qualcosa che lo appassioni».
Un altro fronte difficile è quello delle migrazioni, non solo in Europa. La Chiesa che contributo può dare?
«Il fenomeno immigrazione, come dice lei, è globale. La Chiesa fa parte della società e quindi deve essere capace di dire una parola che sia legata al Vangelo, ma anche alla vita sociale, e quindi deve saper guardare a ciò che accade con un sano realismo cristiano. Il compito della Chiesa è richiamare tutti all'umanità, perché noi non viviamo a compartimenti stagni. Se sei disumano, se chiudi gli occhi di fronte a quello che accade al di là dei nostri confini, ma anche dentro, perdi l'umanità».
Cardinale, oggi ha comunicato che non sarà a Pavia per la festa di Sant’Agostino dove la aspettavano anche per consegnarle il denaro raccolto a sostegno dei cittadini di colpiti dalla guerra.
«Sì, purtroppo. Mi sento in colpa per non essere lì ma se partissi mi sentirei ancora più in colpa perché abbiamo bisogno di risolvere una questione importante che riguarda la mia parrocchia di Gaza».