La Nuova Sardegna

L’intervista

Sardegna terreno fertile per i clan, Paolo Borrometi: «Attenti, le mafie ci sono già»

di Francesco Zizi
Sardegna terreno fertile per i clan, Paolo Borrometi: «Attenti, le mafie ci sono già»

Paolo Borrometi, scrittore e giornalista da anni sotto scorta, lancia l’allarme. «La criminalità organizzata si infiltra nell’economia e compra consenso»

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Sassari La Sardegna non è un’isola felice. Lo ripete con forza Paolo Borrometi, esperto di mafie, giornalista d’inchiesta, scrittore, presidente Articolo 21 e della scuola di formazione politica Piersanti Mattarella, da anni sotto scorta per le minacce della criminalità organizzato. Atttento osservatore delle trasformazioni mafiose, Borrometi invita a guardare oltre i cliché di coppola e lupara: oggi le mafie non sparano più per affermarsi, ma preferiscono corrompere, infiltrarsi nell’economia, comprare consenso. L’isola, dove per decenni si è pensato che il banditismo e i sequestri fossero un baluardo contro le organizzazioni tradizionali, è invece un territorio vulnerabile, attraversato da interessi criminali esterni e non immune da infiltrazioni.

Lei sostiene che la Sardegna non possa dirsi estranea alle mafie. Perché?

«In Sardegna ci sono sicuramente organizzazioni criminali mafiose. Abbiamo certezze sulla presenza di ’ndranghetisti e camorristi, e sono convinto anche di clan siciliani e stranieri. Non credo, invece, a una mafia sarda strutturata con una cupola verticistica come quella che conosciamo in Sicilia. Qui non vedo un architrave simile, ma questo non significa che l’isola sia immune. Dire che non c’è mafia significa invitare i mafiosi a entrare indisturbati».

Molti ricordano i sequestri di persona e il banditismo come antidoto alle mafie. È davvero così?

«Storicamente il fenomeno dei sequestri ha tenuto lontane le organizzazioni tradizionali, che preferivano fare affari economici piuttosto che affrontare il rischio di sangue. Ma oggi è cambiato tutto. Quelle organizzazioni dedite al banditismo si sono reinventate dopo che i sequestri non si potevano fare più a causa delle leggi e dell’attenzione dello Stato: pensiamo agli assalti ai portavalori, spesso opera di bande pugliesi o sarde. La domanda è come questi soldi vengano poi reinseriti nel circuito legale: la risposta è il riciclaggio. Ecco perché il 416 bis dovrebbe essere rivisto per essere riadattato alla realtà sarda, lo dice bene il procuratore generale di Cagliari Luigi Patronaggio».

A suo avviso, quali sono i segnali che non vanno sottovalutati nell’isola?

«Prima di tutto le intimidazioni: auto bruciate, minacce ad amministratori, atti di pressione verso imprenditori e giornalisti. Poi il traffico di sostanze stupefacenti: dove c’è tanta droga c’è quasi sempre un’organizzazione criminale che controlla il territorio. Questi sono reati spia, indicatori che ci dicono chiaramente che qualcosa si muove. La società civile deve prenderne atto e pretendere risposte dalla politica».

Lei ha citato spesso la necessità di non abbassare la guardia. A cosa si riferisce in particolare?

«Io vengo da una provincia, quella di Ragusa, dove per anni si diceva che la mafia non esisteva, che eravamo immuni. Poi abbiamo scoperto che era solo una riserva di caccia per gli affari. In Sardegna rischia di accadere la stessa cosa. Dire che non ci sono infiltrazioni significa illudersi. E invece ci sono già, eccome. Bisogna alzare l’asticella, perché le mafie non hanno più bisogno di sparare: minacciano e corrompono prima di uccidere».

Il ministro Nordio ha cercato di tranquillizzare gli animi sull’arrivo dei 92 detenuti a regime di 41bis in Sardegna. C’è da stare sereni?

«Io, lo dico chiaramente, mi fido molto di più del parere del procuratore Patronaggio che non di quello del ministro Nordio: il procuratore conosce a fondo la realtà dell’isola e ha ben chiaro il rischio che corriamo. È un problema serio, non solo di ordine pubblico ma anche di sicurezza. È vero che essendo un’isola i colloqui sono più difficili, ma avvengono. E intorno ai detenuti si muove sempre un sistema fatto di relazioni, contatti, affari. Pensare che questo non abbia effetti sul territorio è un errore».

Si può parlare di spartizione del territorio tra clan in Sardegna?

Non ho elementi per dire che ci sia una spartizione geografica. Piuttosto, c’è una spartizione di affari, come accade a Roma: tutte le mafie convivono, senza dividersi fisicamente il territorio ma dividendosi i settori economici. Certo, ci sono zone dove prevalgono camorristi o ’ndranghetisti, ma non è questo il punto. Il vero tema è che in Sardegna esistono tutte le condizioni perché le mafie si radichino».

Molti cittadini sardi non percepiscono la presenza mafiosa. È un rischio?

«È il rischio più grande. Anche a Milano per anni si diceva che ci fossero gli anticorpi. Poi abbiamo scoperto che non era vero. Faccio un esempio: Matteo Messina Denaro usava Telegram quando non lo usava nessuno, poi quando l’app è diventata di uso comune è tornato ai pizzini. Insomma, i mafiosi vivono nella società come noi, e non sono stupidi. Bisogna riconoscere i segnali e reagire». 

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