Omicidio di Cinzia Pinna, la criminologa Roberta Bruzzone: «Emanuele Ragnedda è dominato da un senso di onnipotenza»
«La cocaina non può essere è un alibi: è piuttosto un amplificatore degli impulsi»
Sassari La storia di Emanuele Ragnedda e dell’omicidio di Cinzia Pinna si muove tra cocaina, ricchezza ostentata e fragilità profonde. Un ragazzo della buona società gallurese, figlio di imprenditori, circondato da lusso e senso di impunità. Una notte di eccessi, una ragazza che diventa il bersaglio di una violenza improvvisa e spietata. Poi il cadavere nascosto, la fuga sgangherata in mare, e infine la resa. Dietro il delitto, secondo la criminologa Roberta Bruzzone, non c’è la paura, ma la volontà di dominio. Non un raptus, ma una scelta. Non un “bravo ragazzo” fuori controllo, ma un uomo che si crede intoccabile.
Il racconto del “buon samaritano” che aiuta una ragazza in difficoltà le pare credibile?
«Il quadro del buon samaritano non regge. Ragnedda non ha caricato in auto una ragazza per aiutarla, ma ha individuato un soggetto fragile, facilmente manipolabile, e l’ha portata nella sua tana. È molto plausibile che ci sia stata una richiesta di natura sessuale, seguita da un rifiuto. Tre colpi sparati al volto non sono una reazione di paura, ma un atto di annientamento. E l’occultamento del cadavere dimostra piena consapevolezza della gravità di quanto ha fatto».
C’è poi il tentativo di fuga in mare, quasi grottesco…
«Sì, è il gesto di un uomo che non sa più gestire la pressione. Dopo aver cercato di mostrarsi in pubblico per fingere normalità, quando ha sentito il fiato sul collo degli inquirenti è crollato».
Che ruolo hanno avuto la cocaina e l’alcol in questa vicenda?
«Sono amplificatori di impulsi, non cause. Soprattutto su una personalità narcisista e con senso di onnipotenza come quella di Ragnedda. Lui faceva valere la propria posizione sociale, si sentiva superiore al resto del mondo. Tende a svilire il prossimo, come quando ha gettato via Cinzia come fosse un giocattolo rotto. La droga non cancella la responsabilità, è disinibente ma non altera la capacità di scegliere. Quindi non può costituire né un alibi né una giustificazione».
In questa storia si parla molto anche della “Dama Nera”, la compagna onnipresente che lo avrebbe spalleggiato. Che idea si è fatta?
«Il favoreggiamento è inquietante, soprattutto se arriva da una donna. Non si tratta di amore, ma di un rapporto tossico fondato su interessi. Lei non protegge l’uomo, protegge l’investimento economico che quell’uomo rappresenta. Resta accanto a una persona evidentemente compromessa dalla droga, ne accetta la promiscuità sessuale, e lo copre persino dopo un omicidio. È un legame di potere e convenienza, non di sentimento».
Se avesse avuto Ragnedda come paziente, sarebbe stato recuperabile?
«No. Un soggetto come lui non si sarebbe mai fatto aiutare. Non avrebbe mai varcato la soglia di uno studio. È un privilegiato, ha sempre avuto tutto: denaro, opportunità, protezioni. Anche buone doti imprenditoriali, ma un ego smisurato, amplificato dalla cocaina. Durante la mia carriera ho studiato spesso profili simili, ma li ho incontrati solo come autori di reati, mai come pazienti. Perché chi si crede onnipotente non chiede aiuto».
La madre di Ragnedda è stata molto dura, quasi impietosa, nei confronti del figlio.
«È una donna lucida. Ha sempre avuto chiara la natura dei problemi del figlio, che sono strutturali. Si è sentita tradita. Gli aveva affidato la parte più bella e autentica della sua vita: la tenuta di Conca Entosa, che rappresentava le radici, i sacrifici, la memoria della famiglia. E lui ha distrutto tutto questo. Quando sottolinea di chiamarsi Giagheddu, e non Ragnedda, segna una distanza netta: di valori, di storia, di umanità».
Il padre, invece, sembra vivere in un’altra realtà.
«Sì. È agli antipodi. Si racconta un’altra storia. Non ha mai accettato la verità del figlio e continua a proteggerlo. Avvallare la versione del “buon samaritano” significa negare l’evidenza, non voler guardare in faccia i fatti. Posso comprendere l’amore paterno, ma l’eccesso di protezione è una forma di cecità. Così non si aiuta un figlio, si contribuisce solo a perpetuare il suo abisso».