Oscar Farinetti: «La Sardegna ha prosciutti e vini da urlo. Ma dovete raccontarli meglio»
Il patron di Eataly presenterà il suo nuovo libro al festival dell’Altrove di Guasila
Sassari C’è un’Italia che rinasce ogni volta che apparecchia la tavola. Oscar Farinetti ne è l’addetto stampa. Nell’epoca del lamento perpetuo, lui fa il contrario: studia i dati, li trasforma in storie, e alla fine vende una promessa: si può fare. Da Alba alle metropoli, passando per Cagliari e Olbia, l’imprenditore-narratore-scrittore che ha inventato Eataly, giura che l’Italia resta un marchio meraviglioso, se lo sai raccontare. Farinetti è uno che parla di cibo come un poeta contadino, ma lo vende come un manager milanese. Ha l’aria bonaria dell’oste, ma il fiuto del banchiere. E in Sardegna vede un capitale dormiente: prosciutti sorprendenti, formaggi universali, vini da riscrivere. E un’idea fissa: la bellezza non è un vezzo, è un’industria.
Lei conosce la Sardegna. Cosa le piace di più di quest’isola?
«Quando atterro a Cagliari o a Olbia mi sento bene, punto. Non so perché, ma credo di avere qualche avo sardo, dev’essere quello. Mi piace la vostra testardaggine buona, quella del “never give up”, mi piace la vostra timidezza, che non è chiusura ma rispetto. Io sono logorroico, chiacchierone, il contrario di un sardo, e forse proprio per questo vi adoro. Mi bilanciate. Mi sento sempre accolto con calore vero. Siete l’isola più bella del mondo, al centro del mare più bello del mondo. Una figata, se mi passate il termine».
Il patrimonio agroalimentare sardo è enorme, ma spesso poco raccontato. Cosa manca per farne un marchio mondiale?
«Ha già fatto la domanda con la risposta dentro! Se non lo racconti, non esiste. Un prodotto non narrato non vive. Ecco, alla Sardegna manca un po’ di narrazione. Ho mangiato prosciutti sardi dieci volte più buoni di certi toscani, salumi da urlo. E i vini, poi… Il Vermentino è un vitigno meraviglioso: vi hanno copiato tutti. In Costa Azzurra lo chiamano Roll, ma è lo stesso vitigno. Voi siete la capitale del Vermentino, dovete farlo meglio di tutti. Ma non deve costare 2mila euro la bottiglia. E poi c’è il Cannonau: un vino straordinario, che dovete raccontare meglio. Basterebbe vendemmiare prima, tenerlo più leggero. Sono vini che potrebbero rappresentarvi nel mondo».
Se un giorno aprisse un Eataly in Sardegna, dove lo immaginerebbe?
«A Cagliari, sicuramente. È l’unica città che potrebbe reggere un Eataly. Ma serve una densità abitativa enorme per far funzionare un progetto così: almeno un milione di abitanti in zona. Voi un milione lo avete in tutta la regione. Eataly va fortissimo a New York, Los Angeles, Tokyo, Toronto… città grandi. In Italia funziona bene a Milano, Roma, Torino. In Sardegna sarebbe bellissimo, ma temo difficile».
Lei è l’alfiere del Made in Italy. Quando ha capito che Eataly non era solo un negozio, ma un’idea capace di viaggiare nel mondo?
«Io Eataly l’ho creato proprio per quello. Prima vendevo elettronica, con UniEuro: compravo all’estero e rivendevo in Italia, perché da noi ormai non si produceva più nulla. Un giorno mi sono detto: “Ma cacchio, sono nato nel Paese più bello del mondo! Tutti vogliono venire in vacanza qui, mangiare le nostre cose, vivere come noi… e io non faccio niente per questo? Così mi sono messo a studiare i numeri. L’Italia produce i cibi più buoni del mondo, ha la biodiversità più ricca, la cucina più varia e più desiderata, perché è semplice, digeribile, a base di carboidrati. Eppure, quando ho iniziato l’analisi per Eataly, nel 2003-2005, la Francia esportava più del doppio di noi: 41 miliardi contro i nostri 18. Persino i tedeschi e gli olandesi esportavano più dell’Italia. Mi sono chiesto: perché? La risposta era facile. Quelle nazioni avevano costruito una loro distribuzione nel mondo: Carrefour, Metro, eccetera. Noi no. E allora ho detto: bisogna fare una distribuzione italiana nel mondo. Ho fatto Eataly per questo. Ho cominciato da Torino, perché mio padre diceva: se non sai vendere a casa tua, è inutile che vai fuori. Poi sono andato in Giappone, poi in America. Così sono passato da un mercato di 60 milioni di persone a uno di 8 miliardi. Decisamente più interessante».
Il Made in Italy ha ancora forza?
«Altroché se funziona! È un marchio strepitoso. Noi italiani tendiamo sempre a parlar male di noi stessi, ma nel mondo “Made in Italy” è sinonimo di fascino, eleganza, bellezza. È un segno, non solo una provenienza. Va dal cibo ai mobili, ai vestiti, ai lampadari. La roba italiana piace da matti perché ha un’anima».
Oggi però tutti parlano di sostenibilità. È solo uno slogan?
«Dovrebbe essere un impegno vero, ma spesso è solo scena, il famoso “greenwashing”. Io preferisco parlare di “rispetto”: è una parola universale. I francesi la chiamano “durabilité”, che è bellissima. Pensiamo all’etimologia: “sustain” è il pedale del pianoforte che allunga la nota. È questo il senso: far durare le cose. Se compri un oggetto che dura, rispetti la Terra. Noi italiani siamo partiti bene, col biologico e con l’agricoltura meno intensiva. Ma adesso ci siamo fermati. Eppure potremmo essere il primo Paese al mondo al 100% da fonti rinnovabili: abbiamo sole, vento e mare. Basterebbe crederci. In Sardegna non mi convincono le pale eoliche piazzate a caso nell’interno, ma quelle offshore, lontane dalla vista, sono il futuro. Un’isola eolica fatta bene dà la potenza di una piccola centrale nucleare. Io dico: facciamole belle! Con il tocco italiano. Pale disegnate da Renzo Piano o Fuksas: il Made in Italy anche nell’eolico».
Si sente più commerciante, visionario o narratore?
«In questo momento mi sento uno scrittore. Ho appena pubblicato il mio primo romanzo, “La regole del silenzio” (lo presenterà venerdì alle 19 al Festival dell’Altrove a Guasila, intervistato da Matteo Porru) a e mi fa impazzire vedere che sta andando bene. Lo so, c’è chi dice: “Ma chi si crede di essere?” Li capisco. Ma scrivere mi rende felice. È un modo per mettere ordine nei pensieri. È come cucinare con le parole».
Lei è sempre ottimista. È una dote naturale o una scelta?
«È obbligatorio esserlo! L’ottimismo è una responsabilità, non un carattere. Non vuol dire pensare che vada tutto bene: vuol dire pensare che i problemi si possano risolvere. Il pessimismo, invece, è solo un alibi per la pigrizia. Chi è pessimista dice: “Non posso farci niente”, e così non fa nulla. Io credo che ogni problema abbia una soluzione, e che la vita sia troppo breve per lamentarsi».
Ai giovani sardi cosa direbbe?
«Direi: non ascoltate troppo la mia generazione. Vi stiamo consegnando un Paese con 3mila miliardi di debito, quindi fate di testa vostra, che farete meglio di noi! Però vi prego: non diventate cinici. Oggi il cinismo è di moda, ma distrugge tutto. La storia lo dimostra: ogni volta che ha vinto il cinismo, sono arrivate la guerra e la morte. Metteteci sempre dentro i sentimenti, in tutto ciò che fate».
Che consiglio darebbe alla classe politica per rilanciare davvero il Made in Italy?
«Usare la leva fiscale. Premiare chi esporta di più, chi innova, chi rispetta l’ambiente. Tassare meno gli utili reinvestiti in azienda. È semplice. Così si creano scenari favorevoli, e poi lasciateci lavorare».
Un piatto che rappresenta il mady in Italy in cucina?
«I tortellini in brodo. Se dovessi scegliere un piatto solo. Quelli piccoli, bolognesi, con mortadella, prosciutto crudo e parmigiano. Però, attenzione: il piatto migliore è sempre quello che mangio oggi. Bisogna essere curiosi. Io non ordino mai dal menù: dico al cuoco “portami i due piatti più buoni che hai cucinato oggi”. Non voglio sapere cosa sono. Per fortuna non sono allergico a niente. E già questo è un gran privilegio»