Il rock indomabile di Joe Perrino: «Neanche all’inferno mi vogliono»
L’artista cagliaritano racconta la sua carriera negli anni ruggenti della musica. Dai Mellowtones al gelo con i Litfiba, dall’incubo del coma al ritorno in scena
Lo sguardo vivo, la voce graffiata come una vecchia Telecaster, la voglia di emozioni. Nicola Macciò, per tutti Joe Perrino, anima irrequieta del rock italiano, è seduto ma non fermo: cantante, attore, performer. Una carriera da artista a tutto tondo iniziata nei primi anni Ottanta a Cagliari, la sua città, e segnata da successi, cadute, rinascite. La ribalta con i The Mellowtones, i tour con i Litfiba, l’esperienza a Londra, il ritorno in Sardegna e ancora la creazione di “Pergrazianonricevuta”, il suo spettacolo musicale di enorme successo portato in scena con Giovanna Maria Boscani e dedicato alle canzoni della malavita del capoluogo.
Nel 2023, il bruttissimo incidente in moto: due mesi di coma, il risveglio miracoloso e una riabilitazione ancora in corso. Eppure il vecchio animale da palcoscenico, per quanto costretto in una sedia a rotelle, continua a cantare, scrivere e vivere con la stessa intensità di sempre. «Già, ma tra alti e bassi: nonostante sia circondato da affetto, i periodi di depressione non mancano», ammette prima di raccontarsi in questa chiacchierata. Un sopravvissuto? «Diciamo che non mi hanno voluto nemmeno all’inferno».
Chi era Nicola Macciò prima del successo con lo pseudonimo di Joe Perrino?
«Era un ragazzo con il bisogno di essere protagonista. E in quel periodo la musica era il modo più diretto per farlo. Io ero sempre gasato, pieno di entusiasmo, anche se il mio primo gruppo fu uno dei peggiori in circolazione (ride - ndr): gli SS20, genere punk-hard core. Poi mi notarono a un’assemblea studentesca e mi proposero di cantare. Per me fu una valvola di sfogo: rabbia, energia, voglia di dire le cose in faccia».
Però il successo arrivò con i The Mellowtones e una canzone senza grande impegno: “Mi sento felice”.
«Esatto. Un brano tutt’altro che politico: un’esplosione di colori, libertà, vitalità. Ci ispiravamo agli anni Sessanta e Settanta: musica, cinema, letteratura. Eravamo malati di quell’epoca».
E la ribalta fuori dalla Sardegna?
«Arrivò con il nostro primo concerto oltre il Tirreno: “Palermo Rock contro la mafia”. Partimmo in pullman con tutta la scena rock italiana: Litfiba, Diaframma, Gas Nevada, Neon, Detonazione… Noi eravamo i più giovani, ma non ci sentivamo inferiori. Dopo il concerto, sui giornali, nella foto principale c’ero sempre io, non altri. I giornalisti rimasero colpiti dalla nostra energia. Da lì cominciò tutto: etichette, riviste, concerti. Il singolo “Love the colors” uscì per l’etichetta High Rise di Federico Guglielmi e ci spalancò le porte di tutta Italia. Bellissimo. Era un fulmine a ciel sereno. Nessuno si aspettava un gruppo come noi. Siamo rimasti una band di culto, una band seminale».
Tanto è vero che giunse subito dopo la proposta dell’Ira Records, la stessa etichetta dei Litfiba, anche loro emergenti.
«Ci volevano in squadra. Accettammo. Il disco uscì, ma senza crediti, senza informazioni: solo la copertina. Un disastro comunicativo».
E quindi?
«Nei tour con i Litfiba eravamo troppo rock’n’roll, troppo casinisti e l’Ira Records a un certo punto tirò il freno a mano: in una scuderia non possono esserci due cavalli di punta. Così ci misero da parte».
Come ha vissuto quel momento?
«Malissimo. Mi sentii tradito, soprattutto da Piero Pelù, che consideravo un amico fraterno. Lui era anche socio dell’etichetta. Quando si accorsero che Joe Perrino & The Mellowtones stavano crescendo troppo, decisero di farci fuori. Fu una ferita enorme. Vivevamo a Firenze, rincorrevamo i soldi che ci spettavano per i live. Assurdo. Ma alla fine ricevetti una proposta da un gruppo inglese conosciuto a Sardinia Rock. Così mollai tutto e andai a Londra».
Con Piero Pelù in che rapporti siete rimasti?
«Civili. So che in alcune interviste mi elogia e ricorda la nostra amicizia. È il minimo, francamente».
L’esperienza londinese?
«Andò bene, almeno all’inizio. Feci un’audizione e mi presero subito. Poi emersero tensioni interne e la band si sciolse. Ma Londra mi ha lasciato solo bei ricordi. Vivevo a dieci minuti da Camden, nel cuore della musica e della vita. Il governo inglese mi aiutava: ero residente ufficiale, riconosciuto come artista in una città in pieno fermento».
E allora perché il ritorno a Cagliari dopo tre anni?
«Il mio manager era finito male, tra alcol e cocaina, e perdemmo il treno. Tornai in Sardegna e trovai la gente che mi accolse a braccia aperte. Formai gli Elefante Bianco, una band potentissima, molto vicina al suono dei Red Hot Chili Peppers. Eravamo considerati tra i migliori gruppi in Italia: energia pura».
Pura e inesauribile: anche dopo il brutto incidente ha continuato a esibirsi.
«Sì. Nonostante la sedia a rotelle faccio spettacoli tutti sold out. Certo, la mia condizione mi limita, e ci sono momenti malinconici. Ma non mollo. A me, per fermarmi, devono spararmi in testa. Ora sto lavorando a un nuovo disco con Maurizio Pinzan ad Alghero. Non mi fermo mai».
Com’è stato tornare sul palco in sedia a rotelle?
«All’inizio è stato un dolore enorme. Non accettavo la mia condizione. Ho pensato di farla finita. Ma poi mi sono aggrappato a ciò che mi teneva vivo: la famiglia, la musica, il teatro, il pubblico. Quando mi svegliai dal coma, la prima cosa che feci fu sorridere. Non potevo parlare, ma comunicavo con gli occhi. La voglia di vivere mi ha salvato».
Che legame ha con la Sardegna?
«Fortissimo, sono un patriota sardo. Credo nelle radici, nella lingua, nella nostra terra. Potremmo essere indipendenti, abbiamo cultura, risorse, identità, ci manca solo una classe dirigente. Non sono più attivo nei movimenti indipendentisti perché li trovo troppo intermittenti, ma ho amici come Gavino Sale e Simone Maulu che stimo molto».
Cagliari e Sassari: due città che la rappresentano.
«Cagliari è la mia casa, un “pasticcino”. Ogni volta che passeggio sotto il Bastione o al porto, penso: “Sono fortunato a vivere qui”. Ma adoro anche Sassari e i sassaresi. Ho tanti collaboratori da quelle parti. Il nuovo disco lo sto registrando ad Alghero con musicisti straordinari».
Chi è oggi Joe Perrino?
«Sono un padre, un marito, un artista. Vivo con Valeria e i tre nostri figli: uno è un ragazzo del Ghana che abbiamo adottato l’anno scorso. La famiglia non mi limita, mi sostiene. Ma resto libero, sempre. Certo, ho le mie “deviazioni” – donne, alcol, qualche sregolatezza – ma so quello che faccio. Non mi nascondo: vivo da rockstar perché quella è la mia natura».
E il futuro?
«Sto portando avanti lo show “Pergrazianonricevuta” e sto lavorando al disco “Operaio romantico”. Nasce da un documentario sul lavoro e sull’arte: parla di chi deve fare l’operaio per continuare a essere artista. È il mio modo di raccontare la realtà, senza maschere».
Se dovesse definirsi con una parola soltanto?
«No ho dubbi: tenacia».
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