La Nuova Sardegna

Sassari

Omicidio Ara, i Ris in aula: nella tuta polvere da sparo

di Nadia Cossu
Omicidio Ara, i Ris in aula: nella tuta polvere da sparo

Delitto di Ittireddu in appello. L’indumento copriva il fucile imbracciato dal killer Rilevate anche tracce di un Dna compatibile con quello dell’imputato Unali

15 gennaio 2022
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ITTIREDDU. «Non c’è alcun dubbio: quella trovata sul pantalone della tuta era polvere da sparo». Le certezze del luogotenente Luciano Gravina, del Ris di Roma, sono emerse con forza ieri mattina davanti alla corte d’assise d’appello di Sassari dove si sta celebrando il processo di secondo grado nei confronti di Vincenzo Unali, già condannato all’ergastolo per l’omicidio di Alessio Ara, ucciso il 15 dicembre del 2016 a Ittireddu. Gravina era stato citato per un confronto sull’esame dello stub con Cristian Bettin, ingegnere meccanico ed esperto di balistica, oltre che consulente della difesa.

L’avvocato Pietro Diaz, che difende l’imputato, nell’atto d’appello aveva chiesto che venissero risentiti, per un confronto, il maresciallo del Ris di Cagliari Fabio Magnani e il consulente tecnico della difesa Vincenzo Agostini in merito al Dna rilevato sul cordoncino di una tuta e, ancora, il luogotenente Gravina e l’ingegnere Bettin sull’esame dello stub. Ieri Gravina, fornendo una dettagliata spiegazione rispetto alle perplessità manifestate dalla difesa, ha chiarito – dati tecnici alla mano – il motivo per cui non può esserci alcun dubbio sul fatto che quelle tracce siano riconducibili a polvere da sparo.

Ara, 37 anni, era stato ucciso per il solo fatto – questa è sempre stata la tesi del pubblico ministero Giovanni Porcheddu – di aver avuto una relazione con Piera Unali, figlia dell’imputato e già impegnata con un altro uomo. Una storia d’amore che per il padre non doveva né poteva andare avanti. Il rischio era infatti che la fine della relazione “ufficiale” della donna con il suo compagno potesse compromettere gli affari di famiglia. Circostanze che erano state evidenziate anche dai legali di parte civile Ivan Golme e Luigi Esposito.

La Procura riteneva di avere in mano una prova chiave: il Dna. Tracce biologiche furono infatti rinvenute su un indumento che fu trovato vicino al luogo dell’omicidio e che, secondo il pm, fu perso dal killer durante la fuga. Si trattava del pantalone di una tuta che sarebbe stato usato per avvolgere il fucile. Quelle tracce si trovavano su un laccio utilizzato per chiudere l’estremità del pantalone. Il Dna risultò compatibile con quello di Unali. Ma per la difesa nello stesso pantalone c’era anche il Dna di un’altra persona, ignota. E questo particolare avrebbe dovuto far vacillare le certezze degli investigatori. Il pm lo aveva definito un dettaglio irrilevante dal momento che quella tuta poteva appartenere ad altri e in tal caso era ovvio che ci fosse un Dna differente. Andava invece evidenziata l’identità della persona che aveva stretto il laccio per realizzare la custodia dell’arma. E su quel laccio c’era il Dna dell’imputato.

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